DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI

lalegge

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IL DIRITTO DEI DIRITTI

 

Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

 

L’articolo sancisce la libertà e l’uguaglianza in dignità e diritti come principi fondamentali da riconoscere ad ogni persona, in quanto tale.
Dotata di ragione e di coscienza, la persona contrae l’obbligo di agire verso i suoi simili in spirito di fratellanza perché ne comprende e riconosce la pari dignità e quindi, gli uguali diritti.
In questo modo, ad ogni diritto corrisponde un dovere esplicito e, dalla loro complementarietà scaturiscono i vincoli delle relazioni personali e sociali. In base a ciò, si costruisce il consenso che sarà alla base dell’organizzazione giuridico-politica. Come essere libero, ogni persona è soggetto capace di autodeterminazione e quindi, è sovrana.
Tale sovranità, nell’ambito delle relazioni umane, si presenta come uno spazio di espressione della libertà personale, limitata solo dalle altre libertà personali.
Per costruire poi rapporti stabili a livello di organizzazione sociale, si è giunti a definire ruoli, distribuire compiti, separare funzioni e attribuire poteri che sono stati delegati, nell’arco della storia in modo differenziato in base a precise teorie antropologiche e giuridico-politiche.

“L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene… Come è potuto avvenire un cambiamento del genere? Lo ignoro. Cosa può renderlo legittimo? Credo di poter rispondere a questa domanda”.

“Ognuno di noi mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi accogliamo nel nostro seno ogni membro come parte individuale del tutto”.

J.J. Rousseau, Du Contrat Social, libro I, cap. I, Ed. a cura di M. Halbwachs, Parigi, p. 59 (trad. it., Il Contratto Sociale, in Scritti Politici, a cura di P. Alatri, Torino, 1970).

 

Nella storia

Nell’antichità classica, l’autorità politica racchiudeva in sé ogni forma di potere e, nel caso specifico della storia romana, l’imperator era anche sacerdos et dux disponendo della vita e della morte dei propri sudditi. Solo con l’avvento del Cristianesimo, tale autorità veniva attribuita a Dio che nell’ordine del suo piano creativo, aveva affidato alla persona la possibilità di esercitare un’autorità, intesa come servizio, nella sfera sia temporale che spirituale; tale autorità veniva riconosciuta quindi al re e al papa.
Si stabiliva così un ordine gerarchico per il raggiungimento del bene comune all’interno dei gruppi umani.
La gestione del potere, benché così ordinato, diede origine successivamente a forme di cesaropapismo e di teocrazia.
Nel Medioevo l’organizzazione del potere era basata sulle due grandi coordinate universalistiche del Papato e dell’Impero. Ciò avveniva per realizzare nello Stato la massima unità e coesione politica.
La sovranità allora, in quanto potere di comando in ultima istanza, era strettamente connessa alla realtà specifica della politica: la pace e la guerra.
Nell’Età Moderna, con la formazione dei grandi stati territoriali sotto forma di Monarchie assolute, il compito di garantire la pace tra i sudditi del suo regno spettava esclusivamente al sovrano-re, unico centro di potere onnicompetente ed onnicomprensivo.
Nel XVIII secolo, con l’avvento delle nuove teorie sulla sovranità, si ebbe il capovolgimento totale. La sovranità, secondo J.J. Rousseau, diventava espressione diretta della volontà dei cittadini quando miravano all’interesse generale e non a quello particolare, e cioè quando avrebbero agito moralmente e non utilitaristicamente. Il problema era quello di conciliare sovrano e popolo, nell’unità dello Stato che avrebbe eliminato e superato ogni dualismo: l’intera comunità diventava un solo corpo, di cui il Re era il capo e gli altri, le membra; il re sarebbe diventato ben presto la persona giuridica pubblica per eccellenza, perché detentrice della sovranità.
La tesi giusnaturalistica formulata nel 1600 veniva riaffermata con vigore durante il XVIII secolo, quando per la prima volta nella storia dell’umanità, fu accolta nelle Costituzioni nazionali. Su questa premessa si fondarono la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti (1776) e la Dichiarazione Francese dei Diritti dell’uomo (1789).
Il 4 luglio del 1776 i coloni inglesi, riuniti a Filadelfia, spiegarono al mondo intero i motivi della loro decisione dichiarando che: tutti gli uomini sono creati uguali… e che ogniqualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla ed istituire un nuovo governo fondato su tali principiQueste colonie sono, e per diritto devono essere, Stati liberi e indipendenti.
Il 26 agosto del 1789, a Parigi, gli stessi principi furono enunciati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nell’art. 1: “Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti”, e nell’art. 6: ” … (la legge) deve essere uguale per tutti, sia quando protegge sia quando punisce. Tutti i cittadini, essendo uguali dinanzi ad essa, sono parimenti ammissibili ad ogni dignità, posto o impiego pubblico, secondo la loro capacità e senza altra distinzione, all’infuori di quella della loro abilità e del loro ingegno”.
In quello stesso anno, una donna, Olympe de Gouges, scriveva la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina con la quale, insieme ad altre donne, cercò di sviluppare e applicare con coerenza i principi proclamati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo estendendoli a tutta l’umanità.
In particolare, alla metà dei XIX secolo si formava lo Stato Italiano a seguito dei noti eventi del Risorgimento, quando gli Stati preesistenti nella penisola italiana diedero vita ad uno Stato unitario di forma monarchico- costituzionale. Così lo Statuto, emanato nel 1848 da Carlo Alberto per il piccolo Regno di Sardegna, diventava la legge fondamentale dello Stato Italiano. Esso restò in vigore per circa un secolo, fino a quando, dopo la caduta del fascismo e la conclusione della seconda guerra mondiale, il popolo italiano volle mutare le regole del “patto” e diede vita alla Costituzione repubblicana a suffragio universale – esteso per la prima volta anche alle donne.
La Costituzione entrò in vigore il 1� gennaio 1948, cent’anni dopo lo Statuto Albertino.

 

Oggi

Attualmente, il concetto politico-giuridico di sovranità sta suscitando un dibattito intenso sulla articolazione delle varie forme di sovranità, che possono essere attribuite sia alla persona come soggetto politico, sia al singolo Stato, che ad istituzioni di carattere internazionale.
Il dibattito si esprime a vari livelli: sul piano teorico, col prevalere delle teorie costituzionalistiche; sul piano pratico, con la crisi dello Stato moderno, ormai incapace di essere un unico ed autonomo centro di potere, soggetto esclusivo della politica, solo protagonista nel campo internazionale.
Il cambiamento in atto è determinato sia dalla realtà sempre più diversificata e complessa delle stesse società democratiche, sia dal nuovo carattere delle relazioni internazionali favorito da più forti e più strette forme di interdipendenza tra i diversi Stati, sul piano giuridico, economico, politico, ideologico ed etnico.
Lo stabilirsi di una sempre più stretta collaborazione internazionale, ha avviato un confronto tra i poteri tradizionali dei singoli Stati sovrani e le nuove forme istituzionali nascenti a livello internazionale. Inoltre, si è iniziato a riflettere sul significato degli stessi poteri tradizionali mettendo in discussione il concetto della sovranità assoluta degli Stati.
Le autorità “sovranazionali” hanno la possibilità di verificare, con appositi organi, il grado di applicazione del diritto “sovranazionale” da parte dei singoli Stati nell’ambito del proprio ordinamento costituzionale.
Contemporaneamente, gli organismi sovranazionali non possono ledere la sovranità dello Stato con disposizioni contrarie alle regole costituzionali dello stesso.
L’ingerenza non è permessa se non in casi dichiaratamente umanitari, la cui definizione lascia ampio spazio di dibattito e di riflessione tuttora in corso.
L’adesione a determinate alleanze o la partecipazione a organismi specifici può, per certi versi, limitare la sovranità di uno Stato a vantaggio di un progetto comune.
Ci sono anche nuove forme di alleanze economica, militare e politica, che sottraggono ai singoli Stati la disponibilità di risorse proprie e/o determinano una sovranità subordinata delle potenze minori nei confronti di quella egemone.
Si sono aperti nuovi spazi, non più controllati dallo Stato sovrano.
Le imprese multinazionali, ad esempio, consentite dal mercato mondiale, hanno un potere di decisione libero da qualsiasi controllo: pur non essendo sovrane, pur non avendo una popolazione ed un territorio su cui esercitare i poteri sovrani, non rispondono ad una autorità.
Ancora, i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno consentito la formazione di un’opinione pubblica mondiale, che esercita talvolta la propria pressione affinché uno Stato accetti, anche controvoglia, di negoziare la pace.
La pienezza dei potere statuale è ormai in piena crisi. Si è capito che lo Stato non è legittimato ad esercitare alcun potere assoluto nei confronti del cittadino da cui riceve una delega. Esso è sovrano dinanzi allo stato stesso che vede limitato il proprio potere in virtù di questa sovranità personale del cittadino che va rispettata comunque sia. Con ciò però non scompare il potere, ma solo una determinata forma della sua organizzazione, che ha avuto nel concetto politico-giuridico di sovranità, il suo punto di forza. Un caso specifico è quello della ricerca di poteri sovranazionali che limitano la sovranità di uno Stato per il raggiungimento del bene comune dell’intera Comunità Internazionale.
Conseguentemente c’è oggi, spesso, l’esigenza di procedere, attraverso una lettura dei fenomeni politici attuali, ad una nuova sintesi politico-giuridica che disciplini giuridicamente le nuove forme di potere, i nuovi “paradigmi” che stanno emergendo, quali l’etnia o la regione.

 

Nella Costituzione Italiana

La storia non ha interrotto il suo cammino: L’art. 2 della Costituzione Italiana sancisce a sua volta il principio fondamentale della dignità della persona umana. L’art. 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razze, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il Pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” L’affermazione di principio risulta chiara; purtroppo però la difficoltà rimane nella realizzazione di fatto.

lalegge

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L’UGUAGLIANZA NEI DIRITTI

 

  1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
  2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

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L’articolo riafferma la necessità di una stretta connessione fra principio di libertà e principio di uguaglianza. Questa affermazione era comune sia alla Rivoluzione Cristiana -“Ama il prossimo tuo come te stesso”- che a quella Americana, Francese e altre. Essa costituisce la base delle democrazie contemporanee.
Nonostante le diversità che garantiscono l’originalità della persona e che la contraddistinguono, l’articolo riconosce alla persona gli stessi diritti e le stesse libertà ovunque.
Tale enunciato si ritrova già nell’art. 1 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate soltanto sull’utilità comune”.
Nel corso della storia, si sono verificate violazioni di ogni genere che hanno privilegiato alcuni cittadini in nome di una loro presunta “superiorità” nei confronti di altri. Solo riconoscendo un eguale valore o dignità ad ogni essere umano è possibile dare ragionevole fondamento al principio che tutti sono liberi ed eguali nei diritti. Evoluzioni culturali o politico-economiche in qualsiasi parte del mondo non possono, quindi, determinare il mancato rispetto di tale principio, essendo ormai l’uguaglianza un “vincolo” al contenuto stesso della legislazione.

 

 

Nella storia

La storia delle civiltà è stata un lento cammino verso l’abolizione di qualsiasi discriminante che impedisse l’uguaglianza dei cittadini.
Le società antiche si fondavano sulle discriminanti tra cittadini basate sul censo, sulla nascita, sulla razza, sul sesso. Ancora nel 1200 in Inghilterra, il documento ritenuto il fondamento del riconoscimento di alcuni diritti, la Magna Charta Libertatum, nel sancirne il rispetto, sottolinea però come essi fossero validi solo per le classi nobili.
Bisognerà attendere il secolo dei Lumi e la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino per vedere affermare definitivamente che “gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti” e “la legge deve essere uguale per tutti”.
Si ricordi, a tal proposito, il motto della Rivoluzione del 1789 ancora oggi presente nel fregio della Repubblica francese “Liberté, Egalité, Fraternité”.
Nella Costituzione Americana, approvata nel 1787 ed entrata in vigore nel 1789, l’uomo moderno ribadisce quegli stessi contenuti presenti nella Dichiarazione francese assicurandone risonanza e diffusione nei nascenti Stati democratici.
Nonostante ciò, gli Stati democratici moderni hanno vissuto situazioni in cui le diversità di censo e di religione hanno costituito motivo di discriminazione offuscando l’uguaglianza dei cittadini.
La stessa civile America, fino ad anni recenti, ha conosciuto la barbarie dei razzismo nell’organizzazione della sua società, che prevedeva diverse condizioni di vita e di godimento dei diritti fondamentali per i neri.
Solo recentemente, è stato anche abolito l’Apartheid in Sudafrica, per lo meno a livello giuridico.
L’intolleranza verso la diversità, aumentata e talvolta strumentalizzata dalle varie ideologie dominanti, è stata un motivo ricorrente nella storia dell’umanità. Si pensi, per esempio, ai totalitarismi del nostro secolo ed agli effetti devastanti dei due conflitti bellici mondiali.
Alla base di qualsiasi relazione giuridica, si colloca il riconoscimento di pari dignità al diverso, sia esso diverso per razza, religione o censo.
Purtroppo, in diversi ambiti, sia istituzionali che sociali, si sono verificate e tuttora si verificano gravi forme di intolleranza.
Conviene tracciare alcuni esempi, forse fra i più eclatanti, di trattamenti discriminatori verso tutte le diversità elencate in questo articolo.

  • La discriminazione linguistica può essere strumento di ineguaglianza. Nei casi in cui si vieta ad una minoranza l’uso della propria lingua o non la si riconosce come ufficiale, si opera una grave discriminazione, in quanto la lingua è un forte fattore di identificazione. Il gaelico, antica lingua d’Irlanda, è andato perduto anche perché motivi politici causarono una discriminazione linguistica.
  • La discriminazione religiosa, nel corso della storia, è stata alla base di molti conflitti e addirittura di tremende guerre. Ne sono un esempio le guerre di religione francesi, che, nel XVI secolo, opposero Cattolici ad Ugonotti, culminati nella tristemente famosa notte di S. Bartolomeo (24 agosto 1572).

Solo con l’editto di Nantes del 1598, si affermò in Francia per la prima volta il diritto alla tolleranza religiosa e con la Pace di Westfalia del 1648 si riconobbe il diritto di coscienza alla libertà religiosa.
Sul piano generale, l’ortodossia esasperata porta al non riconoscimento della dignità delle altre religioni e anzi alla loro persecuzione, a fenomeni di integralismo e fondamentalismo.
Tutto il colonialismo, inoltre, può essere letto come una discriminazione di razza e colore.
Anche la storia del voto politico alle donne e l’eroismo delle “suffraggette” dei primi del Novecento sono esempi di lotta contro la discriminazione sessuale.
La storia delle discriminazioni politiche inizia con Socrate, prosegue con Thomas Moro e arriva fino ai nostri giorni, ad esempio, con Solzenicyn.

 

Oggi

L’oggetto di questo articolo è talmente ampio che lo si può considerare come la necessaria premessa logica alla base della intera Dichiarazione. La nozione di non discriminazione è, di fatto, comprensiva di una molteplicità di rapporti e realtà.
Per circoscrivere il concetto, l’articolo specifica una serie di diversità oggettive che possono dare luogo a trattamenti differenziati, ma anche queste sono tanto numerose e comunque vaste da rendere l’oggetto della tutela praticamente onnicomprensivo.
A causa di questo, l’analisi concernente il livello di applicazione di questo articolo nello scenario internazionale attuale, deve essere condotta su almeno due piani diversi. Metodologicamente, si devo fare una distinzione generale fra il livello degli ordinamenti statali e il livello sociale. La Dichiarazione Universale ha concretamente ispirato una serie piuttosto ampia di atti internazionali, che hanno provveduto a vincolare gli Stati firmatari all’attuazione di politiche non discriminatorie nel loro territorio. Per citare alcuni esempi, si pensi alla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 1979, a cui l’Italia ha aderito nel 1985, strumento efficace che la Comunità internazionale degli Stati ha adottato affinché una diversità non diventasse ostacolo. Da ricordare anche la Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o su altre convinzioni religiose del 1981, e più recentemente il Trattato istitutivo dell’Unione Europea che all’art. 119 stabilisce parità di trattamento a fini lavorativi e retributivi fra l’uomo e la donna.
Malgrado gli sforzi fatti in questo senso e i notevoli sviluppi degli ultimi anni, esistono ancora gravi forme di discriminazione. Oltre all’Apartheid in Africa, espressione di discriminazione razziale, si pensi anche agli attuali conflitti etnici nei Paesi della ex-Jugoslavia, in quelli ad alto rischio della Comunità degli Stati Indipendenti e, in Rwanda. È emersa, purtroppo, la nefasta ideologia della “pulizia etnica” per motivi di potere e di sopraffazione violenta egemonica. Non si dimentichino, inoltre, i gravi fenomeni di intolleranza religiosa nei paesi a maggioranza islamica o a quelli caratterizzati da un grande pluralismo religioso come nel continente asiatico.
Per quanto riguarda il secondo livello di analisi, quello, cioè, riferito all’ambito sociale, negli ultimi anni si è avuta una notevole evoluzione sul piano della sensibilità comune. Diverse volte, delle istanze avvertite come più urgenti hanno portato ad iniziative che, partite “dal basso”, hanno condotto a decisioni importanti a livello dell’ordinamento statale. La Dichiarazione dei diritti delle persone handicappate del 1975 o la Dichiarazione del disabilitato mentale del 1971 sono due esempi di una crescente consapevolezza riguardo a ciò che attiene ai gruppi più deboli della popolazione, sia per razza o per handicap fisico o per religione o per età.

 

 

Nella Costituzione Italiana

Nella Costituzione Italiana, l’articolo in questione trova riscontro nell’art.3, il quale afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e son uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il riconoscimento della pari dignità di tutti i cittadini rappresenta il fondamento ideale dell’art. 3 che indica, inoltre, la validità della legge per tutti i cittadini nonché il divieto di conferire privilegi.
È opportuno esaminare alcune questioni che derivano dagli specifici divieti di discriminazione contenuti nell’art. 3.
Il divieto di discriminazioni fondate sul sesso si trova nell’art. 51 che dichiara che tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza. In base a questo articolo, la giurisprudenza costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 7 della legge 1176 del 17 luglio 1919, che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e potestà politiche.
Altri criteri contro la discriminazione possono essere desunti dall’art. 37 che definisce essenziale la funzione familiare della donna e dall’art. 31 che tutela la maternità, l’infanzia e la gioventù. Se la funzione familiare è attinente alla natura della donna, il rispetto delle convinzioni per adempiervi deve essere garantito non solo nel rapporto di lavoro, ma soprattutto nella posizione che l’ordinamento dà alla donna nella vita associata al fine di evitarne l’esclusione da determinate attività. L’art. 3 deve anche essere interpretato in connessione con l’art. 29 per quanto riguarda il riconoscimento della parità giuridica fra i coniugi.
Più complessa è la situazione inerente al divieto di discriminazioni fondate sulla lingua. Se da un lato si afferma che i soggetti dell’ordinamento sono liberi nella scelta della lingua, dall’altro l’italiano resta la lingua ufficiale e questo può costituire un onere per ottenere gli effetti voluti da cittadini bilingue o stranieri.
Neppure le diversità di religione possono dar luogo all’adozione di diverse discipline legislative: l’art.3 vieta che distinzioni di fede religiosa abbiano rilievo giuridico; L’art. 19, invece, riconosce la libertà di professare la propria religione, di celebrarne i riti e di farne propaganda.
Il divieto di discriminazioni per le opinioni politiche è puntualizzato dall’art. 49, dove è specificato l’obbligo a carico dei cittadini che si associano in partiti, a concorrere “con metodo democratico” alla politica nazionale.
Per ciò che riguarda le discriminazioni fondate sulle condizioni personali e sociali dei cittadini, la Corte Costituzionale ha affermato che trattamenti differenziati su queste basi sono ammessi solo se riguardano categorie di persone e non singoli soggetti e, soprattutto, se obbediscono a criteri di razionalità.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA VITA, ALLA LIBERTÀ E ALLA SICUREZZA PERSONALE

 

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

 

L’articolo fa parte di quelle norme della Dichiarazione che delineano i diritti civili e politici inerenti a tutte le persone.
È importante sottolineare come con l’espressione “diritti dell’uomo” si indicano i diritti fondamentali della persona umana, quindi non soltanto quelli civili e politici ai quali si riferisce questo articolo, ma anche i diritti economici, sociali e culturali, oggetto di tutela da parte del diritto internazionale.
Da un punto di vista più strettamente giuridico, i “diritti dell’uomo”, o diritti di libertà, sono quelle facoltà o quelle pretese garantite all’individuo in virtù di dichiarazioni di diritti adottate a livello costituzionale o a livello internazionale.
Il diritto alla vita è più importante di tutti i diritti umani in quanto ne costituisce il naturale presupposto e ne definisce la capacità di crescere e di riprodursi.
Si parla di tutela del diritti della persona come difesa di tutti quei diritti connaturati alla sua stessa natura e senza i quali non può vivere come vero essere umano.
Così come la violazione del diritti della persona priva l’individuo della propria dignità e delle proprie qualità che gli consentono di distinguersi da tutti gli altri esseri viventi, allo stesso modo la negazione della vita fa sì che i diritti della persona rimangano senza destinatario e quindi senza possibilità di essere applicati.
La libertà indica, in generale, la condizione in cui un soggetto può agire senza costrizioni o impedimenti, con la possibilità di determinarsi secondo un’autonoma scelta di fini e di mezzi.
La sicurezza invece è quella condizione per cui si vive in tranquillità, senza pericoli, al riparo da qualsiasi timore; rientra nel quadro della sicurezza pubblica.
Questa può definirsi come il complesso del compiti attribuiti alle autorità preposte al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza ed alla incolumità del cittadini, al controllo ed alla osservanza delle leggi e del regolamenti.

 

Nella Storia

Dopo il diritto alla vita che costituisce il fondamento di tutti i diritti della persona, prioritario è il diritto alla libertà personale, affermato per la prima volta nella Magna Charta inglese del 1215, secondo la quale nessun uomo libero poteva essere imprigionato o esiliato, se non in base ad un giudizio del suoi pari e secondo la legge del Paese.
Con la Petition of Rights del 1628, in Inghilterra, il principio si arricchisce nel senso che nessuno può essere privato della libertà personale se non previa emissione di un mandato in cui siano enunciate le ragioni per le quali viene disposta la detenzione o l’arresto.
La Costituzione Americana del 1776 non contiene una dichiarazione del diritti del cittadino, ma già in America nello stesso anno era stata affermata la libertà di stampa nella Dichiarazione del diritti della Virginia.
Gli emendamenti alla Costituzione degli USA, divenuti esecutivi nel 1791, elencavano fra i vari diritti, quello relativo alla libertà personale. L’affermazione più piena del diritti di libertà si ha con la Dichiarazione del diritti dell’uomo e del cittadino nella Francia rivoluzionaria del 1789. In essa infatti si afferma che il limite ai diritti di libertà può essere dettato soltanto dalla legge.
Si elenca inoltre il diritto alla libertà personale e si enuncia il diritto di libertà nei suoi termini più generali “La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ad altri”.
Da questo momento tutte le Costituzioni citeranno sempre espressamente i diritti di libertà.
Si ricorda che lo Statuto Albertino del 1848, il quale ha preceduto in Italia la Costituzione repubblicana del1948, sanciva vari diritti di libertà fra cui quello di libertà personale.

 

Oggi

Il diritto alla vita, nonostante lo si ritrovi alla base di tutti i più importanti documenti costituzionali nazionali e in quelli internazionali, viene ancora violato in molte parti del mondo, se solo si pensa alle migliaia di bambini che vedono violato il loro diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale nelle forme più dure.
In molti Paesi del Sud, tali violazioni assumono delle caratteristiche di vera e propria violenza istituzionalizzata; basti pensare o alla vigenza di regimi militari dittatoriali o alla denutrizione e alla morte per fame, ai fenomeni della prostituzione infantile e ai bambini nella e della strada.
La violazione del diritto alla vita implica contemporaneamente la negazione del diritto alla libertà e della sicurezza della persona.
Chi vive costretto a lottare per la propria sopravvivenza non può sentirsi libero dal bisogno, né si vede riconosciuto nell’esercizio dei suoi diritti.
Per essere persona, dunque, non è sufficiente vivere ma si deve poter esprimere la qualità della propria esistenza e quest’ultima deve poter trovare le condizioni socio-economico politiche adeguate per essere riconosciuta.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana dedica ai diritti di libertà gli articoli da 13 a 54.
Il diritto alla vita, è collegato con il diritto alla crescita della personalità nell’art. 2, con il diritto alla salute nell’art. 32 e con gli altri che la Costituzione sancisce sotto forma di tutela del lavoratore negli artt. 35 e segg.
A differenza di altri ordinamenti, come quello tedesco, in quello italiano non vi è una norma costituzionale esplicita sul diritto alla vita.
Ciò non significa che gli individui possano essere privati di questo diritto, perché, anzi, la Costituzione stabilisce che “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra” nell’art. 27.
A proposito si ricorda che il 5 ottobre 1994 le Commissioni congiunte Giustizia e Difesa hanno approvato la legge che cancella la pena di morte dai codici militari. L’Italia è il 54� Paese ad aver abolito completamente la pena capitale ancora prevista, invece, in 103 Paesi. Nell’ambito della Comunità Europea l’Italia si allinea così con Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Portogallo.
La tutela della vita si riscontra esplicitamente nelle norme del codice penale – artt. 545 e segg.; 575 e segg.
D’accordo con le considerazioni fondamentali di una antropologia personalistica, la Costituzione cura anche gli aspetti non strettamente biologici della vita, come le condizioni sociali ed economiche, la tutela della salute, quella del posto di lavoro, così come affermano gli artt. 3, 32, 35.
La libertà personale secondo i principi della Costituzione Italiana, consiste nel diritto della persona a disporre del proprio corpo, e quindi a non essere assoggettata a misure che, come l’arresto, il fermo, la cattura, l’ispezione e la perquisizione personale, limitano, anche solo temporaneamente, tale disponibilità.
La libertà personale non si identifica con la libertà individuale. Mentre infatti la prima indica libertà da misure coercitive applicate direttamente alla persona umana, la seconda sta a significare la libertà dall’obbligo di tenere determinati comportamenti positivi o negativi.
La Costituzione, dopo aver dichiarato che la libertà personale è inviolabile, nell’art. 13, stabilisce che essa può venire limitata soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi determinati dalla legge.
La tutela della sicurezza pubblica che assume una nuova dimensione nella Costituzione, vuole sostituire alla concezione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino, tipica del regime fascista – testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 -, la partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ed eliminare le aree di emarginazione e di disagio sociale ed economico, che sono le principali fonti del disordine e dell’insicurezza collettivi.

 

In Italia

Il diritto alla vita richiama inevitabilmente i due grossi problemi dell’aborto e dell’eutanasia.
Per l’aborto, la disciplina penale è passata attraverso fasi storiche alterne in quanto materia profondamente condizionata dalle concezioni morali, religiose, di costume e demografiche.
Nella legislazione italiana successiva all’unità nazionale, il delitto di aborto era inserito tra i reati contro la persona.
Il codice penale fascista del 1930 introdusse una rilevante modifica, inserendo l’aborto nella nuova categoria dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe.
Il codice Rocco, dal nome del Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, prevedeva dunque sanzioni molto severe che incriminavano ogni possibile forma di aborto, da quello procurato contro la volontà della gestante a quello su donna consenziente.
A conclusione di una complessa vicenda parlamentare e dopo la presentazione di una proposta di referendum abrogativo delle norme del codice penale incriminatrici dell’aborto, il Parlamento ha approvato la Legge n. 194 del 22 maggio 1978, che ha abrogato le norme del codice penale, cercando di contemperare il diritto alla vita del nascituro e la tutela del benessere fisico, psichico e sociale della madre.
La soluzione adottata prevede i casi in cui l’aborto è consentito entro 90 giorni dal concepimento. La legge stabilisce che la donna che “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o in previsione di anomalie o malformazioni del concepito” si rivolga ad una struttura sociosanitaria, ad esempio un consultorio familiare oppure ad un medico di sua fiducia.
Questi organi compiono i necessari accertamenti ed affrontano con la gestante le cause che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione della gravidanza e la possibilità di superare gli ostacoli alla continuazione della gestazione; decorsi 7 giorni da questo incontro, la donna decide liberamente se procedere o meno all’interruzione della gravidanza, presentandosi in caso positivo ad un centro clinico autorizzato ad eseguire l’intervento.
Dopo i primi 90 giorni dal concepimento, l’interruzione della gravidanza è invece sottoposta a condizioni più rigorose, in applicazione del principio secondo cui la tutela del concepito tende a prevalete sulle esigenze della madre quanto più vicino è il momento in cui la potenzialità di vita si appresta a divenire vita autonoma.
L’aborto in questo caso può infatti essere praticato solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della madre, o quando siano accertati processi patologici, come quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
In considerazione del problemi morali e religiosi connessi all’interruzione della gravidanza, la legge consente al personale sanitario ed ausiliario di sollevare obiezione di coscienza e di essere conseguentemente esonerato dall’esecuzione di interventi abortivi, salvo che l’intervento sia necessario per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
Da sottolineare, in proposito, la posizione della Chiesa Cattolica da sempre contraria alla legalizzazione dell’aborto, in quanto sostenitrice del principio secondo cui ogni essere umano sin dal suo concepimento ha in sé tutte le potenzialità per diventare persona.
Per l’eutanasia, il dibattito è ancora in corso e vede studiosi e ricercatori, impegnati nel tentativo di definire quelli che sono i confini tra la vita e la morte di una persona. Quando si parla di eutanasia passiva si fa riferimento a quell’insieme di circostanze che accelerano i tempi della morte di un malato, ad esempio con la mancata somministrazione di farmaci nella fase terminale della sua malattia. Ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia la volontà della persona circa la sua vita o la sua morte. Si può pensare ad una legislazione sulla eutanasia?

lalegge

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IL DIRITTO A NON ESSERE SCHIAVO

 

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù: la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

 

La schiavitù è una condizione per cui una persona viene privata di ogni suo diritto da un’altra persona che, compiendo un abuso di potere, la considera sua proprietà e se ne fa padrone.
La schiavitù tradizionale è stata abolita sotto il profilo giuridico ma, di fatto, non completamente eliminata. Attualmente la schiavitù si presenta sotto nuove forme che comunque, causano una violazione dei diritti della persona. Alla schiavitù tradizionale e al commercio degli schiavi si aggiungono la vendita dei bambini, la prostituzione infantile, la pornografia estesa all’infanzia, lo sfruttamento della mano d’opera infantile, la mutilazione sessuale ai danni delle bambine, l’utilizzazione dei minori nei conflitti armati, la servitù per debiti, il commercio di persone e la vendita di organi, lo sfruttamento della prostituzione ed alcune forme di apartheid e di colonialismo.

 

Nella Storia

Come testimonianza storica di epoche antiche, la Bibbia stessa riporta esempi di schiavitù. Nelle storie sia di Abramo sia di Giacobbe, si parla della schiavitù per assicurare la discendenza nei casi di sterilità della moglie legittima. In tale evenienza, il bambino generato dal “padrone” con la “schiava”, se partorito sulle ginocchia della “padrona”, diventava figlio di quest’ultima. Questo sottolinea la totale appartenenza della schiava alla padrona.
Come fenomeno sociale, la schiavitù ha origine antiche ed era causata da motivi bellici o economici: il commercio e i debiti. Alcune società prevedevano tuttavia che lo schiavo potesse riscattarsi tramite un pagamento.
La civiltà greca non prevedeva la possibilità di riacquistare la libertà, bensì la sola benevolenza del padrone.
Lo schiavo era considerato una mercanzia e per questo privo di diritti politici e di riconoscimento per la sua famiglia: sua moglie e i suoi figli potevano essere venduti per volontà del padrone. Secondo Aristotele lo schiavo non veniva considerato neppure come persona perché mancante, ossia privato della propria razionalità e dei suo volere autonomo.
La civiltà romana creò addirittura una struttura gerarchica fra gli schiavi a seconda del ruolo ricoperto nelle diverse attività: si andava dal villicus, sovrintendente ai lavori, fino agli schiavi semplici. Non era considerato una persona, ma uno strumento che poteva però accedere allo status di libertus recuperando la libertà, ma non l’uguaglianza con gli altri cittadini.
Il Cristianesimo tenta di scardinare la struttura economica basata sulla schiavitù, riconoscendo pari dignità agli schiavi in quanto figli di Dio e quindi uguali agli altri.
Fino all’anno 1000, il commercio di persone è stato attivo per il suo ruolo fondamentale nell’economia del tempo.
Nel Medioevo, dalla crisi del sistema schiavistico, era nato il servaggio. Marc Bloch afferma che: “[…] Finché fu possibile procurarsi schiavi a buon mercato, questi non furono inconvenienti gravi. Lo divennero quando lo schiavo diventò una merce rara”. Fu necessaria, allora, la sostituzione dei servi agli schiavi.
Intanto, con i viaggi in terre lontane, l’uomo europeo entrò in contatto con altre culture e organizzazioni societarie: si pensi ai viaggi compiuti in India, in Cina e, successivamente, in Africa e in America dei Sud. Iniziarono le prime razzie dei popoli africani e la loro riduzione in schiavitù da parte dei conquistatori; anche gli indigeni americani subirono la stessa sorte.
In Europa, in occasione della conquista dell’America Latina nel sec. XVI, i teologi e i giuristi spagnoli confrontavano le loro tesi per stabilire se fosse stato legittimo ridurre le popolazioni autoctone in schiavitù e quale fosse stata la natura stessa della schiavitù. Entravano nel dibattito, considerazioni di ordine etico e morale: che solo gli infedeli sconfitti in una guerra regolare potevano essere fatti schiavi mentre i pacifici abitanti dei Nuovo Mondo dovevano divenire liberi sudditi dei re spagnoli. Questa distinzione rispondeva alla missione affidata dal Papa alla Corona di Spagna; infatti la riduzione in schiavitù dei pagani ne ostacolava la conversione. Il principio etico prevalse sulle leggi dell’economia.
Considerazioni politiche impedivano la schiavitù: i coloni si arricchivano e rafforzavano il loro potere nei confronti della Corona. Procedere contro coloro che violavano i principi umanitari perché possedevano schiavi, permetteva alla Corona di procedere contro quei coloni che agivano con troppa autonomia.
La schiavitù venne abolita ma rimasero forme tipiche dell’organizzazione delle colonie discriminatorie nei confronti degli indigeni, mentre nelle zone periferiche questa pratica veniva ancora praticata. Era ancora istituzionalmente riconosciuta dalla legge la schiavitù degli africani; francesi e portoghesi praticavano anche il contrabbando degli schiavi neri.
Significativa è stata la posizione di Frate Bartolomé de Las Casas dapprima proprietario di schiavi indigeni poi “convertito” al punto da essere nominato “Protector de los Indios’ (1516). Per salvare gli indigeni inabili alle pesanti fatiche cui venivano sottoposti, propose di sostituirli con gli schiavi neri che resistevano al lungo viaggio. Las Casas venne accusato per questa incongruenza che sconfessa lui stesso in seguito. Va ricordato che la schiavitù domestica era praticata in tutto il bacino del Mediterraneo e, come altre istituzioni, sembrava piuttosto una applicazione di usi medievali europei che non una novità americana.
Anche in America del Nord, l’organizzazione economica coloniale aveva bisogno di mano d’opera a bassissimo costo: venivano importati schiavi neri provenienti dall’Africa da impiegare nei lavori delle grandi piantagioni del Sud di cotone e di tabacco.
La schiavitù negli Stati Uniti trova giustificazioni soprattutto di carattere economico in quanto inserita in un sistema economicamente redditizio basato sullo sfruttamento della forza lavoro. La necessità di procurarsi lavoro agricolo è stato uno dei problemi più difficili, sorti nel Nuovo Mondo. La schiavitù offriva una soluzione molto conveniente: la fornitura di schiavi neri era inesauribile, potevano essere definitivamente legati alla terra e non c:1 sarebbero state più preoccupazioni per il lavoro in futuro.
Al fine di giustificare la cupidigia economica dei colonizzatori, teorie religiose, culturali e pseudo-scientifiche sono state proposte per provare la inferiorità morale e biologica dei neri come razza. Si è sostenuto che il cervello dei neri fosse più piccolo di quello dei bianchi, che il colore nero fosse il colore di Satana, che i neri fossero discendenti di Cani, il figlio nero di Noè che è stato maledetto e quindi predestinato ad essere schiavo.
Nel 1542, con le Leggi Nuove, la Corona spagnola stabilì che nessuno doveva ridurre in schiavitù gli Indiani neppure in occasione di una guerra giusta, né poteva acquistarli.
La Gran Bretagna nel 1807 denunciò per la prima volta l’istituzione della schiavitù proibendo la tratta marina degli schiavi. Altri Stati si unirono ad essa in questa iniziativa, ma si dovrà aspettare fino al Congresso di Vienna nel 1815 per una denuncia formale contro la schiavitù espressa in intese internazionali volte alla soppressione del fenomeno.
Sarà la Gran Bretagna nel 1833 la prima ad abolire la schiavitù. Va ricordato però che, a fianco di questa schiavitù ufficiale, esisteva largamente praticata anche in Inghilterra, una forma di schiavitù mascherata nello sfruttamento dei lavoro femminile ed infantile. Senza rispetto per condizioni di salute, età, necessità di riposo, queste categorie erano ampiamente sfruttate per convenienza economica.
Negli Stati Uniti, in occasione della Guerra Civile scoppiata nel 1861 tra gli stati dei Nord dell’Unione e la Confederazione dei Sud, veniva abolita la schiavitù.
Nel XIX e XX secolo la schiavitù e la sua soppressione diventa un interesse di portata internazionale, dando luogo ad una serie di trattati, dichiarazioni e convenzioni.
La prima fra le più recenti è la Convenzione relativa alla schiavitù dei 1926 elaborata dalla Società delle Nazioni.
Nel 1949 l’ONU ha adottato la Convenzione contro il commercio degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione, richiedendo agli Stati firmatari di adottare delle misure finalizzate anche ad assicurare la rieducazione delle vittime della prostituzione. Nel 1990, i paesi aderenti erano 60. Nel 1956 è subentrata la Convenzione supplementare relativa all’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe. Nel 1975 all’interno dell’ONU è stato previsto un gruppo permanente di lavoro sullo studio della schiavitù in ogni sua forma e, in quello stesso anno, l’Assemblea Generale ha adottato la Dichiarazione sulla Protezione contro la tortura, le punizioni o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’attenzione di gruppi di lavoro e di commissioni ONU verso l’uso di queste pratiche non è mai diminuita. Nel 1984, l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato una Convenzione contro la tortura o altri trattamenti o punizioni inumani, crudeli e degradanti, entrata in vigore nel 1987. Gli Stati che hanno ratificato la Convenzione, 86 nel 1990, si impegnano a prevenire e reprimere la tratta degli schiavi e a perseguire la soppressione della schiavitù in tutte le sue forme.

 

Oggi

Il problema della schiavitù riguarda spesso i gruppi sociali più deboli e vulnerabili che la subiscono, a volte, sotto forme non immediatamente riconoscibili.
Un esempio può essere la mano d’opera infantile, estremamente ricercata in quanto economica e facilmente sfruttabile a seconda delle necessità. Bambini dai sette ai dieci anni arrivano a lavorare 14 ore al giorno con uno stipendio che non equivale ad un terzo di quello degli adulti. I bambini impiegati a livello domestico oltre a lavorare molte ore, sono particolarmente esposti a violenze sessuali o di altro tipo. Nei casi estremi i bambini sono incatenati la notte per evitarne la fuga. In questo e in altri modi si, danneggia la loro salute, la loro istruzione e il normale svolgimento dei loro primi anni di vita.
Ulteriore forma di sfruttamento è l’arruolamento coatto dei bambini e il loro sottostare al servizio militare, realtà segnalate in numerose parti dei mondo. Le conseguenze sono catastrofiche: molti bambini sono morti o sono rimasti mutuati nel corso di operazioni belliche, tanti altri sono stati torturati o incarcerati come prigionieri di guerra.
Altra forma da segnalare è l’arruolamento, il trasporto clandestino e lo sfruttamento della prostituzione femminile ed infantile di entrambi i sessi. In alcuni paesi è stata sviluppata una connessione fra prostituzione e pornografia e la promozione e lo sviluppo del turismo.
Si arriva poi alla vendita dei bambini che vede i genitori come intermediari o persone senza scrupoli che ottengono da tale attività profitti consistenti.
Persiste tuttora poi la schiavitù per debiti che non differisce dalla schiavitù tradizionale poiché la vittima non può lasciare l’impiego o la terra da lei coltivata fino a quando non abbia estinto i suoi debiti. i tassi d’interesse sono però tali da rendere impossibile l’estinzione dei debito che viene così ereditato nella maggior parte dei casi, dai figli dello “schiavo”.
Oggi non si distinguono più nettamente le diverse forme di schiavitù; di conseguenza le stesse famiglie o gruppi di persone sono spesso le vittime di molteplici sfruttamenti.
Per quanto riguarda la donna, va ricordato che in alcuni paesi del mondo islamico e dell’India, le disposizioni sulla famiglia, sul matrimonio, sulla proprietà legate alla religione e/o alla organizzazione sociale, ne fanno ancora oggi una persona sottomessa c/o schiava. Si pensi ad esempio alla cultura indù secondo la quale alla morte dei marito, la vedova diventa moglie dei cognato senz’altra possibilità di scelta.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione condanna la schiavitù nel suo art. 13:“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dalle autorità giudiziarie nei soli modi e casi previsti dalla legge”.
Lo Stato assoluto non riconosceva i diritti dei cittadini nei confronti dei potere pubblico, ma solo nei confronti dello Stato in quanto operante come soggetto di diritto privato. La categoria dei diritti pubblici soggettivi rappresenta, sul piano giuridico, la reazione contro questo aspetto dei regime assoluto. L’inviolabilità della libertà personale rientra nella categoria dei diritti pubblici soggettivi ovvero dei diritti dei soggetti privati nei confronti dei potere pubblico. Il problema essenziale di tali diritti è la loro garanzia. Nell’articolo 13 sono presenti a tal fine due tutele. La prima consiste in una riserva di legge assoluta. È la Costituzione stessa che esige la regolazione della materia solo ad opera dei legislatore ed il significato garantista di questa scelta risiede nel vietare che altri possano regolarla ovvero escludere il potere esecutivo. La seconda è costituita dalla riserva di giurisdizione. In questo caso, la Costituzione sottrae al potere esecutivo oltre che la facoltà di normazione dei casi previsti, anche quella di esecuzione affidandola all’Autorità Giudiziaria che, essendo soggetta unicamente alla legge, è ritenuta più adatta ad effettuarla.

lalegge

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IL DIRITTO ALL’INTEGRITÅ PERSONALE

 

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti

 

Nella storia del diritto, per tortura si intende un tormento corporale inflitto all’imputato o al testimone di un processo per indurlo a confessare o a deporre veridicamente.
Essa è stata esclusa dalle leggi dei paesi civili nel corso del XIX secolo, ma è tuttora praticata illegalmente in molte parti dei mondo.
Estendendo il concetto, si può dire che con il termine tortura si intende qualsiasi forma di coercizione fisica o morale praticata su qualcuno per estorcergli una confessione, per ottenere qualcosa o per pura crudeltà.
A partire da queste definizioni, è facile dedurre quanto la tortura o le pratiche inumane, crudeli e degradanti siano ancora praticate nel mondo e come tutte tendano ad avvilire e a mortificare la persona umana, la sua dignità, la sua sicurezza e l’incolumità personale sua e/o dei suo cari. L’esercizio di queste pratiche, oltre che a raggiungere gli scopi dei torturatori, tende a creare nel soggetto torturato una condizione psicologica per cui quest’ultimo diventa un mero “oggetto” nelle mani dei suoi aguzzini perdendo la volontà che distingue l’uomo da altri esseri viventi. La volontà della persona torturata c/o maltrattata è nelle mani di chi la sottopone a tortura.
Nella Dichiarazione sulla Protezione dalla tortura adottata dall’ONU nel 1975 si definisce la tortura come: “Ogni atto con il quale grande dolore o sofferenza, sia fisica che mentale, è intenzionalmente inflitto su istigazione di pubblico ufficiale ad una persona allo scopo di ottenere da lui o da terzi informazioni o confessioni, infliggergli una punizione per un’azione commessa o presunta tale o infine per intimidire la persona stessa o terzi.

 

Nella Storia

La tortura, praticata con diverse motivazioni, ha avuto libera espressione per secoli accompagnando la storia dell’uomo, quella del suo pensiero a livello filosofico, scientifico e politico, e la comparsa di credi religiosi.
Nella storia, spesso l’autorità costituita, sia civile che religiosa, ha adottato la tortura per reprimere e combattere idee e concezioni che riteneva potessero opporsi o minare l’ordine costituito. Di frequente veniva usata per risolvere questioni di natura giuridica quando, per la loro soluzione, i mezzi previsti non erano sufficienti. In ogni caso, sia in passato che nel presente, l’adozione della tortura mostrava e mostra l’incapacità dei poteri costituiti di esercitare la propria autorità nel rispetto delle regole democratiche.
La tortura rappresenta una logica autoritaria e repressiva.
Il mondo greco già conosceva ed utilizzava questa pratica. Anche nel periodo della democrazia di Pericle, sebbene si vivesse in un regime più aperto, la tortura veniva praticata.
I Romani non la conoscevano e la introdussero solo nel periodo imperiale, inizialmente, per i reati di carattere politico; rimase affidata ai tribunali supremi e non venne inizialmente regolamentata a livello legislativo.
Marco Aurelio introdusse, a favore degli eminentissimi et perfectissimi, il privilegio di non essere torturati; privilegio poi esteso ai decurioni, e ai senatori ereditari, nonché ai milites.
La tortura si rafforzò con l’assolutismo imperiale e venne usata per i reati di lesa maestà e contro gli operatori di magia. Non vanno dimenticate le torture inflitte ai cristiani perseguitati.
Ereditata dalle leggi romane, la tortura fu accolta dai barbari, e la sua pratica dilagò fino a tutto il periodo dei Rinascimento, e venne sancita dagli Statuti Comunali e dalle legislazioni principesche.
Nel 1200, Innocenzo III autorizzò le autorità civili a servirsi della tortura per estirpare l’eresia. Questa pratica serviva a coprire anche l’imperfetta organizzazione della giustizia dell’epoca, che si basava e che conferiva grande importanza alla confessione del reo, da ottenersi con ogni mezzo.
Nel XIII secolo la pratica della tortura era prevista e limitata ai soli processi penali. L’Inquisizione rappresenta l’istituzione che maggiormente ha adottato la pratica della tortura e di altri trattamenti inumani, crudeli e degradanti. Essa viene ricordata per la crudeltà delle tecniche e degli strumenti utilizzati. Per un approfondimento sull’Inquisizione, confronta la scheda dell’articolo 18.
Un tenue riferimento all’esercizio della tortura si ha nella Petition of Rights del 1628, atto con il quale, in Inghilterra, la Camera dei Comuni richiamava il sovrano Carlo I Stuart all’osservanza di quanto sancito dalla Magna Charta. In particolare: “(…) nessun uomo potrà essere arrestato o messo in prigione (…) né molestato in nessun altra maniera se non in virtù di una sentenza legale dei suoi pari o delle leggi del paese” La tortura viene qui condannata come forma di penalizzazione che toglie al detenuto il diritto ad essere riconosciuto come persona.
Più incisivamente il Bill of Rights del 1689, documento tra i più importanti del sistema costituzionale inglese, stabilisce che non debbano essere “inflitte pene crudeli e inusitate”.
Nel 1764 Cesare Beccaccia, autore dell’opera “Dei delitti e delle pene”, si esprime contro l’uso della tortura ottenendo un successo tale da far radicare il suo messaggio nelle coscienze e far rinnovare le istituzioni. Egli dimostra come la tortura dei reo sia iniqua, perché esercitata a danno di un potenziale innocente, e mistificatoria perché premia i più resistenti. Beccaria ritiene necessario ripudiare la tortura in nome della ragione, non della filantropia.
Nel 1777 Pietro Verfi rafforzò tale contenuto con le sue “Osservazioni sulla tortura”.
Conseguenza di questa elaborazione di pensiero sarà l’eliminazione dell’uso della tortura nel Granducato di Toscana nel 1786, ad opera di Pietro Leopoldo. Tale precedente avrà per l’Italia conseguenze positive in ambito politico-giuridico perché, all’indomani dell’unità, si realizzerà l’unificazione dei codici.
La tortura viene definitivamente spazzata via solo dea Rivoluzione Francese.
In epoche più recenti, la tortura è stata praticata principalmente per combattere le opposizioni ideologico-politiche ed ha colpito sia singole persone che gruppi.
Come esempio si può ricordare l’uso della pratica della tortura e di altri trattamenti inumani, crudeli e degradanti, adottati dalla organizzazione giudiziaria e repressiva della Germania nazista che, per la vastità delle dimensioni e la crudeltà dei mezzi usati, ha assunto la dimensione del genocidio e dello sterminio. Sono a tutti note le aberrazioni compiute dai nazisti nei campi di concentramento contro gli ebrei, gli oppositori e gli altri gruppi sociali considerati sovvertitori dell’ideologia nazista. Le stesse aberrazioni e crudeltà sono state commesse dal sistema sovietico, quando nel periodo di Stalin ha organizzato il sistema dei lager, utilizzato fino a pochi anni addietro.
Anche il regime fascista ha praticato la tortura. Sono molte le pagine dei diari di scrittori e politici antifascisti che ricordano le torture subite; per chi conosce Roma, è sufficiente ricordare Via Tasso, una strada che incuteva terrore, durante la seconda guerra mondiale, perché vi era una caserma dove veniva praticata la tortura.

 

Oggi

Solo nel 1949 il problema della tortura trova nuova eco a livello internazionale. In quell’anno un rapporto dell’ONU raccomanda l’immediata abolizione delle punizioni corporali in alcuni territori sotto amministrazione coloniale. A sostegno di questa raccomandazione, l’Assemblea Generale, nella risoluzione 440 del 2 dicembre 1950, chiede che “si prendano le misure per la completa abolizione delle torture in tutti i Territori sotto amministrazione fiduciaria dove ancora esistano”. Nel 1955 il primo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione dei crimine e sul trattamento degli offenders ha adottato lo “standard minimo di regole per il trattamento dei prigionieri”. Scopo del documento è stabilire quali principi e sistemi di trattamento dei prigionieri siano da accettare.
Fra i principi da tutelare, che l’ONU ha redatto, rientrano quelli ad opera della Commissione dei Diritti Umani contro l’arresto o la detenzione arbitraria dei 1961. In particolare viene stabilito che nessuna persona arrestata o detenuta possa essere soggetta a trattamenti quali tortura, violenza, somministrazione di droghe o altri che mirino a indebolire le sue capacità. Per questo qualsiasi confessione estorta con qualunque metodo vietato non potrà essere addotta in un qualsiasi procedimento.
Nel 1975 l’Assemblea ha adottato la Dichiarazione sulla Protezione contro la tortura, le punizioni o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti definendoli incompatibili con la natura umana e nel 1979 ha adottato il Codice di condotta degli Ufficiali Giudiziari, il quale prevede che “nessun ufficiale giudiziario può infliggere né tollerare alcun atto di tortura, punizioni o altri trattamenti inumani, crudeli o degradanti”.
Nel 1982 l’Assemblea ha redatto una serie di principi di etica medica, in base ai quali si proibisce al personale sanitario un coinvolgimento attivo o passivo in atti che costituiscono partecipazione, complicità, incitamento alla tortura ed altri trattamenti inumani. Tuttavia secondo la Convenzione contro la tortura approvata nel 1984 ed entrata in vigore nel 1987, “non rientrano nella tortura quelle pene che un individuo può provare in seguito alla normale applicazione delle misure legislative”. I 40 stati, e tra questi l’Italia, che a fine ’89 hanno ratificato la Convenzione, si impegnano a prevenire la tortura, assicurando la perseguibilità penale anche nei confronti dei torturatori che abbiano soltanto eseguito un ordine o si siano rifugiati in altri paesi; nessuna circostanza, neppure una guerra, giustifica tale pratica. La stessa Convenzione del 1987 ha istituito il Comitato per la Prevenzione della Tortura con il compito di visitare i penitenziari e qualunque altro luogo di reclusione al fine di prevenire trattamenti inumani.
Ancora oggi, la pratica della tortura continua in tutti i continenti, Europa compresa, con l’unica differenza rispetto al passato di venir più recisamente negata dai governi che ne sono responsabili.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana con l’art. 13, quarto comma, punisce ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Questa disposizione mira ad impedire l’uso di violenze fisiche, come la tortura, o morali, come le minacce ai familiari, per estorcere la confessione di presunti reati. Questa norma costituzionale è diretta soprattutto a porre limiti al legislatore, che deve rispettare tutti i diritti fondamentali che la Costituzione garantisce ai cittadini.
L’art. 27, con riferimento alle pene, nel terzo comma aggiunge poi che esse non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione dei condannato.

 

Nella Letteratura

Molti pensatori nel corso della storia si sono espressi contro l’esercizio della tortura, regalandoci struggenti pagine di denuncia. Riportiamo di seguito due esempi significativi scritti da Edoardo Galcano, autore uruguayano e da Leonardo Sciascia, scrittore italiano i quali testimoniano rispettivamente l’uso della tortura nel nostro secolo e quello che se ne faceva nel ‘700.
“In quei tempi non sospettavo che la tortura si sarebbe trasformata in un’abitudine nazionale. lo non sapevo, 15 anni fa, che nelle prigioni e nelle caserme dei mio paese, sarebbe andata via la luce per l’uso eccessivo di elettricità” (“Giorni e notti di amore e di guerra”, Roma, Edizioni Associate, 1987.)
“E il diciannovesimo dell’Inferno l’aveva aiutato a sopportare, e altri versi di Dante, dell’Ariosto, del Metastasio […] Perché questo poteva ora con più coscienza affermare, dopo aver subito per cinque volte la corda, per quarantotto ore la veglia, per sette volte il fuoco: che coloro che avevano concepito la tortura e coloro che la sostenevano erano degli stolti; gente che aveva dell’uomo, e della propria umanità, la nozione che ne può avere il coniglio selvatico, la lepre” (Il Consiglio d’Egitto, Torino, Einaudi, 1971)

lalegge

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IL DIRITTO AL RICONOSCIMENTO DEI PROPRI DIRITTI

 

Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

 

La definizione di “personalità giuridica” indica il soggetto di diritto, cioè la persona fisica o il soggetto collettivo a cui lo Stato riconosce la titolarità di diritti e di doveri in base al proprio ordinamento e di agire per il perseguimento di uno scopo lecito e determinato.
Il riconoscimento della personalità giuridica si acquisisce al momento della nascita, purché ad essa vi si accompagni la vita: l’individuo, cioè, deve essere staccato dall’alvo materno (nato) e deve aver respirato completamente almeno una volta (vivo); questa è una condizione necessaria e sufficiente per riconoscere al soggetto il “diritto ai diritti”.
Il concepito non è soggetto di diritti: egli è tuttavia una speranza d’uomo – spes hominis – a cui la legge riconosce taluni diritti, subordinati all’evento della nascita.
Va distinta la personalità giuridica dalla capacità giuridica: la prima è la possibilità di essere soggetto di diritti e doveri; la seconda invece, corrisponde alla capacità di agire: per esempio, un cittadino ed uno straniero nello stesso Paese, possono godere- di identica personalità giuridica, ma hanno diversa capacità giuridica. Lo straniero non è soggetto di alcuni diritti politici, né sottoposto ad alcuni obblighi come il servizio militare.
La personalità giuridica può essere anche attribuita ad un gruppo di persone che agiscono non in modo separato ed autonomo fra loro, ma in stretto rapporto, associativamente, ed anche facendo riferimento ad un insieme di beni collettivi destinati ad un fine particolare. Possono avere misure e gradi diversi di attuazione secondo i rapporti giuridici che stipulano o intraprendono.

 

Nella Storia

Il concetto di persona viene usato in tutte le epoche per indicare e spiegare l’espressione e i comportamenti dell’individuo nel proprio gruppo e in generale nella società.
Presso i Romani, il termine persona, di origine etrusca, designò la maschera teatrale, atteggiata a un particolare stato d’animo che gli attori portavano sulla scena per caratterizzare visivamente quanto recitassero. Nel linguaggio comune e nella letteratura indicava ciò che si vedeva apparire, cioè la maschera che nascondeva la vera identità di un soggetto reale ignoto.
Tale significato fu usato anche dalle e nelle altre culture fino all’epoca moderna. Ancora oggi viene ripreso ed impiegato correntemente.
Se le fonti romane impiegarono il termine largamente, non vi attribuirono tuttavia un valore tecnico. Esempio lampante ne furono le limitazioni che subì nella società schiavista.
Questo significò e continuò a significare che non vi è sempre una corrispondenza diretta tra una definizione dei concetto di persona e il modello di società che lo elabora c/o in cui si vive.
Inoltre va detto che per la sua genericità, il concetto di persona può far riferimento a più tipi di identità, atteggiamenti e comportamenti.
È importante evidenziare le analogie e le differenze insite nel concetto, per arrivare a comprenderne gli orientamenti interpretativi elaborati nelle varie epoche storiche e le modalità dei loro riconoscimento anche sul piano giuridico.
La giurisprudenza medievale e quella rinascimentale, continuarono infatti a non attribuire al termine persona una particolare significazione giuridica.
Solo dalla fine dei XVI secolo, il concetto di persona riferito ali’individuo diventò oggetto di analisi più precise da parte della giurisprudenza.
Da allora infatti si fecero i primi tentativi per chiarire il rapporto tra l’elemento naturalistico, cioè la persona in quanto entità fisica reale, e la sua considerazione da parte dei diritto: la persona in quanto entità giuridicamente rilevante.
La situazione cominciò a cambiare nel corso dei XVIII secolo, quando, sotto la spinta ideologica dell’individualismo giusnaturalistico, si vollero far coincidere lo status homini naturalis e lo status homini civilis, cioè la nozione di uomo come dato naturalistico e la nozione di persona come dato giuridico, sostenendo che ogni uomo sarebbe di per sé – in quanto tale, – portatore di diritti soggettivi. Il vecchio oggettivismo naturalistico venne allora a restringersi al solo concetto di individuo, puntualizzandosi così e risolvendosi in una concezione soggettivistica.
Nasceva una figura nuova, il subiectuni iuris, espressione indicante non più ciò che si trovava sottomesso ad una regolamentazione oggettiva, ma “l’essere pensante a cui i diritti soggettivi sarebbero appartenuti per natura”.
Questi diritti, così riconosciuti e difesi, apparvero per la prima volta nella Costituzione Americana della fine del XVIII secolo. Infatti, non furono manifestazioni di tali diritti né la Magna Carta dei 12 1 5, né la Petition of Rights dei 1627, né l’Habeas Corpus del 1679, né il Bill of Rights del 1689, che erano riconducibili a comportamenti di liberazione di classi di cittadini inglesi nei confronti della monarchia.
Il punto di arrivo si ebbe quando in alcune costituzioni europee del primo dopoguerra, sulla base di alcune esperienze anche negative maturate negli anni, si ritenne corretto limitare non solo l’azione del potere esecutivo, ma anche del corpo legislativo, creando le Corti Costituzionali. Esse ebbero il compito di impedire che il potere legislativo violasse i principi fondamentali contenuti nelle stesse costituzioni.
Nel XX secolo si è avuta una svolta in tale problematica: si è considerato soggetto di diritto non solo l’uomo, ma anche altri soggetti sociali che, come lui, possono esistere ed avere una volontà altrettanto reale.
In Italia il rispetto di tali diritti e principi non è stato costante. Il fascismo infatti ha violato il principio di uguaglianza già proclamato dallo Statuto Albertino nell’art. 24, imponendo come requisito necessario per ricoprire impieghi dello Stato o di enti pubblici, l’appartenenza al partito fascista; limitazione che il costituzionalista Ruini così commentava: “Né dopo aver assistito agli arbitri che per ragioni politiche o razziste, spogliavano intere categorie di cittadini del glorioso patrimonio della capacità giuridica (leggi personalità), della cittadinanza, del nome era possibile tralasciare un esplicito divieto”. Occorreva riconoscere una sfera di autonomia dell’individuo affannando una autolimitazione dello Stato davanti a quelli che furono chiamati i diritti soggettivi.

 

Oggi

Lo stato di diritto, fondato sul riconoscimento positivo e la garanzia giurisdizionale dei diritti pubblici soggettivi, costituisce la base delle democrazie contemporanee.
Il diritto come tale, presenta cinque caratteri fondamentali: naturale, perché è acquisito dalla nascita e non viene conferito da soggetti esterni come la società o lo Stato; universale, perché comune a tutte le persone senza eccezioni; egualitario, perché non rivendicabile da nessuno, essendo tutti titolari dei medesimi diritti; immutabile, in quanto rimane sostanzialmente identico anche nella permanente evoluzione dei soggetti; oggettivo, perché esistente in sé.
Questi caratteri garantiscono l’inviolabilità del diritto e permettono di stabilire le norme vincolanti dei rapporti sociali e della stessa organizzazione politica.
La personalità giuridica in quanto tale, può definirsi come: “l’attitudine ad essere titolari di posizioni giuridicamente rilevanti”, cioè di diritti e di doveri.
L’evoluzione giuridica dei mondo contemporaneo l’ha attribuita sia al soggetto singolo che al soggetto collettivo.
Lo Stato, soggetto di diritto per eccellenza e possessore di personalità giuridica in sommo grado, tanto da esigere che tutti gli altri enti con personalità giuridica non operino in contrasto con le sue direttive, è la fonte prima delle norme giuridiche ed a lui spetta il compito di conciliare armonicamente gli interessi individuali e di tutelare il diritto di ciascuna persona.

 

Nella Costituzione Italiana

Il riconoscimento dell’essere umano come soggetto di diritti inviolabili è riconosciuto e garantito dall’art. 2 della Costituzione Italiana: “La Repubblica garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo.” come elemento essenziale del sistema costituzionale e come prima garanzia del rispetto delle condizioni di uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini.
Il pensiero cattolico ha avuto un’influenza determinante nell’impostazione e nell’elaborazione di questo articolo della Costituzione.
Il suo dettato, per essere inteso in modo giusto, va considerato alla luce dei clima storico in cui è nato, di reazione contro il regime fascista e nazista basati sul totalitarismo statale e sulla conseguente riduzione e degradazione dei diritti umani a semplici interessi delle politiche perseguite dai pubblici poteri. La loro valutazione discrezionale faceva sì che il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona, anteriori ed intangibili anche di fronte allo Stato, fossero violati e trasgrediti.
In Italia infatti solo chi apparteneva al partito fascista godeva della piena capacità giuridica; chi non vi apparteneva, vedeva annullata tale capacità in uno dei suoi aspetti essenziali, ossia nel diritto di accesso ai pubblici uffici.
Per questo, l’art. 2 della Costituzione Italiana rappresenta un capovolgimento giuridico rispetto ai principi dell’ordinamento dello Stato fascista.
Un’ulteriore garanzia viene offerta dall’art. 22, il quale dispone che nessuno può essere privato, per motivi politici, della propria capacità giuridica.
Il legislatore contemporaneo ha voluto tutelare, come si è detto in precedenza, l’individuo con i relativi diritti della personalità giuridica. Essi costituiscono delle libertà a contenuto negativo che impediscono o detengono ogni disturbo esterno per il godimento delle stesse libertà; si risolvono nel potere di escludere tutti gli altri soggetti, privati e pubbliche autorità, dalla sfera Sconosciuta e lasciata alla disponibilità dei loro titolari.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA UGUALE TUTELA DINANZI ALLA LEGGE

 

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

 

La ferma convinzione che tutti gli uomini siano liberi ed uguali implica il diritto alla tutela, da parte della legge in modo uguale e paritario, della dignità della persona umana. Tutte le persone infatti posseggono, in quanto esseri umani, il diritto di essere difesi dalla legge senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, o di altro genere, di nazionalità, di ricchezza, di nascita. I diritti e le libertà di un individuo possono essere limitati soltanto quando compromettono i diritti e le libertà di altri individui. La convinzione di superiorità di singoli individui o di gruppi di individui nei confronti di altri è basata su falsi principi e pregiudizi che si trovano radicati nella storia, come frutto di elaborazioni culturali diverse. Tutto ciò scaturisce dal desiderio di potere, di alcuni, al fine di creare situazioni di emarginazione e di discriminazione nei confronti dei soggetti più deboli della società.
Questo articolo sottolinea quindi l’erroneità di queste convinzioni, e le combatte in nome del diritto alla pari dignità e all’uguaglianza contro ogni forma di discriminazione e riconosce l’uguaglianza delle persone davanti alla legge. Inoltre, esplicita un preciso impegno alla tutela della persona da ogni forma di discriminazione che possa violare ì principi contenuti nella stessa Dichiarazione Universale e contro incitamento alla discriminazione in sé.

 

Nella Storia

Nella storia dei diritti umani la lotta contro la discriminazione in nome dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri per tutti, segna uno sviluppo importante. Essa risulta dalla percezione dell’ingiustizia perpetrata nei confronti di taluni gruppi e ne incanala le rivendicazioni.
La categoria di coloro che sono discriminati diventa un gruppo, formula le sue pretese, ricerca un appoggio anche all’esterno dei confini dei proprio Stato.
Si può dire che, almeno per quanto riguarda la civiltà occidentale, l’identificazione del diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione è già incominciata in seno alla filosofia greca e si è poi accentuata con lo sviluppo del cristianesimo. Per quanto riguarda, invece, il suo riconoscimento e la sua attuazione concreta, si sono dovuti attendere molti secoli, ed essa è lungi dall’essere pienamente realizzata ancora oggi.
I documenti più importanti nei quali questo diritto è stato sancito e promulgato, sono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo formulata all’origine della Rivoluzione Americana dei 1776, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata all’inizio della Rivoluzione Francese nel 1789, la Costituzione della Repubblica di Weimar in Germania nel 1919, la Costituzione Italiana dei 1947. Si potrebbero naturalmente aggiungere le progressive integrazioni di tale diritto entro le costituzioni di vari Stati, avvenute ad opera di sovrani e di parlamenti a partire specialmente dal 1848.
Dopo la seconda guerra mondiale, si è assistito a un fenomeno nuovo, ossia all’emanazione di documenti internazionali, i quali, non si limitavano a riconoscere i diritti fondamentali del singolo individuo, ma si estendevano a difendere i diritti di gruppi, comunità, minoranze, facendone oggetto di tutela giuridica internazionale. Così, nel 1948, le Nazioni Unite hanno emanato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che, insieme alle due Convenzioni o Patti Internazionali sui diritti economici, sociali e culturali e quello sui diritti civili e politici, e al Protocollo Facoltativo relativo a quest’ultimo Patto del 1966, costituiscono la Carta Internazionale dei Diritti Umani. In Europa si ricorda la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani dei 1950, la Carta sociale europea del 1961 nonché l’istituzione della Corte Europea per i Diritti Umani. In epoca più recente, la lotta contro le discriminazioni ha dato vita alla nascita di movimenti per i diritti civili di gruppi umani da sempre discriminati. Alcuni nomi sono testimonianza di un impegno speso a vantaggio di tutta l’umanità: Martin Luther King che a partire dal suo impegno contro le ingiustizie vissute dai neri a causa del razzismo presente negli USA, ha lottato contro il razzismo ovunque.
Il “suo sogno”, veder camminare insieme bianchi e neri, è rimasto quello dei molti attivisti impegnati in America e nel mondo a favore dei diritti civili. Purtroppo, però, ancora oggi in alcuni Stati del Sud degli USA nei processi con imputati neri non è garantita l’equità: non a caso, le percentuali di condannati alla pena capitale risultano più alte se riferite ai neri.
M. K. Gandhi ha iniziato il suo lavoro a favore della uguaglianza tra gli uomini a partire da una condizione discriminatoria da lui stesso vissuta in Sud Africa, dove lavorava. Al suo ritorno in India, combatté le discriminazioni tra religioni e caste e contribuì, con la sua politica della non-violenza all’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna. Dalla semplicità e dalla forza delle sue azioni è nata una filosofia che, ancora oggi, ispira movimenti per i diritti civili in varie parti del mondo.
Rigoberta Menchú, esprime in sé tre tipi di discriminazione che si rintracciano ancora oggi nelle società latino-americane e nelle altre con forti componenti indigene: la discriminazione per il sesso, per la cultura e per il censo. Nasce donna, indigena e povera in Guatemala dove l’organizzazione autoritaria dello Stato è fortemente discriminatoria verso gli indigeni. Già con l’organizzazione coloniale e successivamente con quella neo-coloniale, le classi dominanti attuano una politica di sfruttamento verso gli indigeni che si esprime, tra l’altro, nel lavoro, nell’impedire l’accesso all’istruzione, alle cariche pubbliche-politiche. L’impegno di Rigoberta a favore della uguaglianza, pagato con l’esilio, è stato riconosciuto dalla società internazionale con il conferimento del premio Nobel per la Pace nel 1992. Per i popoli indigeni, Rigoberta è diventata il simbolo della lotta contro le discriminazioni nei loro confronti.

 

Oggi

Con l’esperienza maturata dall’umanità nel corso della storia rispetto alle discriminazioni, – la più recente, quella vissuta durante la seconda guerra mondiale contro gli ebrei e gli oppositori dei regimi fascista e nazista ai quali erano riservati trattamenti differenti in ogni sfera della vita associata, compreso quello della giustizia, – l’ONU elaborò una serie di Convenzioni e dichiarazioni specifiche per attuare l’articolo 7 della Dichiarazione Universale.
Nel 1979 l’ONU adottò anche la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna. Entrata in vigore nel 1981, la Convenzione enuncia le misure da adottare per eliminare la discriminazione nei confronti della donna nella vita politica e pubblica, circa la nazionalità, l’istruzione, l’impiego e la sanità, il matrimonio e la famiglia. Accorda particolare attenzione ai diritti delle donne rurali, all’eliminazione degli stereotipi fondati sul sesso, al divieto di sfruttamento della prostituzione, all’uguaglianza delle donne e degli uomini di fronte alla legge.
Altra forma di discriminazione contro la quale l’ONU ha lottato e lotta sin dalla sua costituzione, è quella razziale. Nel 1963, l’Assemblea Generale adottò, all’unanimità, la Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, e in essa definisce la discriminazione razziale per motivi di razza, colore e origine etnica, come un’offesa alla dignità umana, una violazione dei diritti umani e un ostacolo alle relazioni amichevoli tra gli Stati.
Nel 1965 l’Assemblea Generale adottò la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, con cui chiese che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie e che si incoraggiassero le buone relazioni tra tutte le razze. Basata sulla convinzione che “qualunque dottrina fondata sulla differenza tra le razze o sulla superiorità razziale è scientificamente falsa, moralmente condannabile e socialmente ingiusta e pericolosa e che nulla può giustificare la discriminazione razziale, né in teoria né in pratica”, questa Convenzione intende per discriminazione “qualunque distinzione, esclusione o restrizione o preferenza fondate sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia per scopo o per effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di uguaglianza, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in qualunque altro campo della vita pubblica”.
L’impegno dell’ONU contro il razzismo si è espresso con documenti e con proclamazione di “giornate” e “decenni” volti a combatterlo.
Si auspica, inoltre, la creazione di una autorità o giurisdizione internazionale autonomia, cioè libera di agire, che possa operare non appena è stata sporta una denuncia, senza interventi di governi. La Convenzione europea, la Convenzione internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, i Patti internazionali sui diritti dell’uomo, riconoscono all’individuo il diritto di istanza in materia di diritto internazionale. Una Corte o Tribunale internazionale, però, dovrebbe essere imparziale, formata da magistrati di grande valore e che ispirino rispetto. Anche le dottrine totalitarie, quelle che propugnano la superiorità di una razza rispetto ad un’altra, quelle che incitano alla discriminazione tra persone, sono fortemente condannate dalle Nazioni Unite. Ma oggi, purtroppo, si assiste all’affermarsi di nazionalismi esasperati che propugnano la superiorità di un gruppo su un altro ricorrendo perfino alla pratica della “pulizia etnica”. Questo fa retrocedere l’umanità intera rispetto alle sue conquiste ideali.

 

Nella Costituzione Italiana

Nella Costituzione Italiana l’art. 3 stabilisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di lingua,…”: il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge è affermato solennemente, e acquista quindi una speciale importanza il fatto che non si parli genericamente di uguaglianza, ma di pari dignità sociale. Lo Stato ha inoltre il compito di intervenire costantemente affinché siano rimossi gli ostacoli che di fatto rendono i cittadini diversi fra loro. Esiste nel mondo una ostile opposizione contro il concetto di uguaglianza e perdurano così ingiustizie e soprusi.
La parola uomo significa persona, cioè essere che possiede intelligenza e volontà libera. La dignità di essere libero vale dunque per tutti i cittadini, senza alcuna delle distinzioni citate che non possono essere che causa di discriminazione. Si auspica, poi, il riconoscimento definitivo ed in concreto, dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna.
L’articolo 29 della Costituzione riconosce i diritti della famiglia, definita società naturale fondata sul matrimonio e sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Ciò significa che la legislazione ordinaria deve adeguarsi a tale principio. Infatti la legge dei 19 maggio 1975 n. 151, ha riformato il diritto di famiglia facendolo corrispondere al dettato costituzionale. L’art. 29, con i suoi dettami rende giustizia alle legittime aspirazioni della donna. L’art. 37 riconosce alla donna lavoratrice gli stessi diritti del lavoratore e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni. Il principio della parità tra i sessi, sancito dall’art. 3, viene applicato anche nel campo del lavoro. La parità tra uomo e donna è la logica conseguenza e la conferma dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

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IL DIRITTO AL RICORSO AI COMPETENTI TRIBUNALI NAZIONALI

 

Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla Costituzione o dalla legge

 

Gli articoli 8, 9, 10, 11 costituiscono un sistema relativo ai rapporti tra cittadino e potere giudiziario.
Il potere giudiziario (Magistratura) è, insieme al legislativo (Parlamento) e all’esecutivo (Governo), uno dei poteri fondamentali dello Stato.
Perché esista la libertà politica di un cittadino, è necessario che il potere legislativo sia separato dal potere esecutivo e giudiziario altrimenti, come già sosteneva J.L. de Montesquieu in Lo spirito delle leggi del 1748, “il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore” .
Nei Paesi in cui esistono tuttora delle forme di potere dittatoriale, cioè che non realizzano la suddetta divisione dei poteri, tale diritto continua ad essere violato.
L’essenzialità dei diritti fondamentali è tale da poter reclamare la loro tutela anche nei confronti dello Stato. L’atteggiamento dello Stato nei confronti dei diritti fondamentali, connaturati all’essenza stessa delle norme, deve essere tale da garantire non solo la loro previsione nella Costituzione ma la stessa libertà di pieno esercizio.
Certamente, diventa a tale scopo imprescindibile la possibilità di potersi rivolgere a tribunali indipendenti per poter vedere riaffermato il proprio diritto, ogni qual volta esso risulti minacciato o violato sia dallo Stato che da altri consociati.

 

Nella Storia

Il diritto enunciato in questo articolo era riconosciuto nella civiltà greco-romana in base alla cittadinanza. Trovò poi espressa rivendicazione, per la prima volta, in Inghilterra quando nel 1215 con la Magna Charta all’art. 40, si afferma: “A nessuno venderemo, a nessuno negheremo o ritarderemo il diritto e la giustizia”. E all’art. 52 aggiunge: “Se qualcuno è stato spossessato o privato senza legale giudizio dei suoi pari di terre, castelli, libertà o suoi diritti, glieli restituiremo immediatamente”.
Per trovare una nuova e più ampia difesa di questi diritti, si deve consultare, restando in Inghilterra, la Petition of Rights del 1628 che nel suo art. 4 recita: “Nessuno, di qualsiasi rango o condizione sia, potrà essere spogliato della sua terra né arrestato né imprigionato… o messo a morte senza essere stato ammesso a difendersi in un processo legale”. Nel 1689 il Bill of Rights ribadisce “che il preteso potere di dispensare dalle leggi, o l’esenzione dalle leggi per autorità regia è illegale”.
Lo Stato assoluto invece non riconosceva i diritti dei cittadini nei confronti del potere pubblico. La nascita dei diritti pubblici soggettivi avveniva, sul piano giuridico, sia come reazione al regime assolutistico, sia come affermazione dell’esigenza, propria dello Stato liberale, di garantire le libertà individuali nei confronti dell’autorità, permettendo in questo modo la regolamentazione dei rapporti tra cittadino e Stato.
Nel Giusnaturalismo del 1600, si affermò, poi, la titolarità esclusiva di alcuni diritti da parte dell’individuo; diritti che egli stesso potrà far valere anche nei confronti dello Stato.
È da ricordare il successivo apporto della Rivoluzione Francese che nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” proclamava che “Nessun uomo può essere accusato arrestato o detenuto se non nei casi previsti dalla legge e secondo le forme da essa prescritte” Afferma inoltre che ogni uomo è presunto innocente fino alla condanna e vieta gli arresti arbitrari.
Nel Positivismo del secolo XIX invece, la volontà dello Stato si fece coincidere con il rispetto della legge; ne derivò, che lo Stato, autore dei diritto, non potesse commettere illecito.
La graduale affermazione di tale diritto, dimostra come esso, inizialmente abbozzato, quindi approssimativo ed incompleto, sia stato nel corso dei secoli, definito ed ampliato in seguito alla crescente consapevolezza acquisita dall’individuo in merito ai propri diritti.

 

L’Organizzazione del Potere Giurisdizionale in Italia

La legislazione italiana prevede quattro tipi di giurisdizione: civile, penale, amministrativa e costituzionale.
La prima regola le controversie sorgenti fra privati, o fra privati e la Pubblica Amministrazione – PA – ed aventi per oggetto un diritto soggettivo, ossia i diritti che spettano alla persona. Viene esercitata da diversi soggetti a seconda della loro competenza, suddivisa a sua volta, in valore, materia e territorio. In base a queste distinzioni, la giurisdizione civile è attuata dai giudici conciliatori, il pretore, il tribunale, la Corte di appello e la Corte di Cassazione.
La giurisdizione penale mira a realizzare l’interesse della collettività organizzata in Stato; vigila affinché determinati valori o istituti vengano salvaguardati e pertanto di irrogare una pena a coloro i quali abbiano commesso un reato, in loro violazione. Anche la giurisdizione penale si esplicita grazie al lavoro di diversi soggetti c/o istituzioni anch’essi operanti a seconda della loro competenza: il pretore, il Tribunale, la Corte di Assise di I� grado, Corte di Appello, la Corte di Cassazione, i Tribunali militari, le Camere in seduta comune in sede di provvedimento delle accuse nei confronti del Presidente della Repubblica e dei ministri e la Corte Costituzionale nei giudizi sulle accuse promosse nei confronti del Presidente della Repubblica e dei Ministri.
La giurisdizione amministrativa tutela gli interessi legittimi dei cittadini che sono stati lesi da un atto della PA assicurando, così, la giustizia nell’amministrazione. Anche per la sua attuazione si tiene conto della competenza che viene esercitata dai seguenti organi: Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Tribunali Amministrativi Regionali – TAR, Tribunale Superiore delle acque pubbliche, Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana e il Tribunale di Giustizia Amministrativa per la Regione dei Trentino Alto Adige.
L’ultima giurisdizione prevista, quella costituzionale, è esercitata dalla Corte Costituzionale in sede di giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge e cioè verifica se la legge emanata è contraria ai principi costituzionali. La Corte Costituzionale, inoltre, si occupa dei conflitti di attribuzione e della ammissibilità dei referendum abrogativi.
Va precisato che sebbene siano previsti quattro tipi di giurisdizione, ciascuna organizzata nel suo interno, i magistrati sono tutti uguali non esistendo, infatti, magistrati ordinari o speciali.

 

Oggi

È importante riflettere sui fattori culturali e strutturali che inducono una società a definire certi atti o condotte, come comportamenti illeciti o proibiti tanto da farne oggetto specifico della legge penale e delle sue sanzioni.
Il modo in cui le forze dei controllo sociale o delle autorità competenti reagiscono di fronte a tali atti, va collegato alle strutture dell’intera società. In base a queste, varia notevolmente la definizione dell’atto del crimine o colpa da punire attraverso le fasi dell’arresto, del giudizio e della pena.
Le interpretazioni possono partire o da una concezione definita che vede nella colpa, un fatto assoluto individuabile dalla coscienza comune di tutti i popoli, a cui essa reca un’offesa irrimediabile o da una concezione che neghi la possibilità di isolare una categoria di atti che si distinguono per le loro caratteristiche intrinseche di pericolosità sociale.
Nel primo caso, si postula l’esistenza di norme universali per la convivenza sociale; nel secondo caso, si crede che siano gli agenti dei controllo sociale (giudici, polizia, esperti dei diritto penale) a definire un atto come nocivo o pericoloso. Comunque sia, è imprescindibile che la persona giudicata conosca i principi c/o i criteri, in base ai quali viene sottoposta a giudizio. In qualsiasi caso, tali criteri non possono ledere la sua libertà che viene espressa dai cosiddetti diritti fondamentali e che devono essere riconosciuti, affermati e rispettati dalla stessa legge in base alla quale è giudicata.
Tutto ciò spiega perché la persona detiene la facoltà di ricorso a tribunali competenti nel caso vengano violati i suoi diritti fondamentali e al rispetto dei quali, lo stesso Stato si vincola, in principio, quando Il considera alla base della Costituzione che lo legittima come autorità.
Va ricordato che la Comunità Internazionale si è impegnata ad affermare, sempre con maggior vigore, i diritti fondamentali perché entrassero ed entrino a far parte esplicita delle Costituzioni di tutti i Paesi che in tal modo assumono i diritti fondamentali come base delle proprie legislazioni nazionali.

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana mediante l’art. 24, garantisce a tutti i cittadini di diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Lo stesso articolo definisce la difesa come un diritto inviolabile attribuendogli, anche, la caratteristica di diritto costituzionale. Questo, per garantire maggiormente la difesa quale elemento irrinunciabile per l’imputato. Infatti, sia il diritto all’azione che alla difesa costituiscono due garanzie per la democraticità dell’azione. Per salvaguardare un’attuazione uguale per tutti indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali o sociali, per i non abbienti, si prevede la difesa mediante appositi istituti.
Ancora, lo stesso art. 24 prevede che lo Stato ripari gli eventuali errori giudiziari commessi.
L’art. 24 nel suo complesso, insieme agli articoli 22 e 23, e 25-28, costituisce un’altra garanzia dei diritti di libertà.

 

Principi Relativi alle Varie Giurisdizioni Previste dall’Ordinamento Italiano

B>La giurisdizione penale è il processo rivolto ad accertare l’esistenza di un reato determinato e la colpevolezza dell’imputato di esso. Il Pubblico Ministero – PM – è l’organo dello Stato incaricato di iniziare l’azione penale, ogniqualvolta le leggi lo prescrivano. Il processo penale, modificato con Decreto Legge del 1988, entrato il vigore nel 1989, si svolge attraverso differenti fasi:

I. fase processuale, che a sua volta prevede:

I.1. Indagine Preliminare, durante la quale il PM, avuta notizia di un reato, conduce le indagini preliminari, avvalendosi della polizia giudiziaria;

I.2. La chiusura delle indagini preliminari. che deve essere richiesta dal PM, entro termini stabiliti dal Codice di Procedura Penale, se il fatto ipotizzato non è stato commesso, oppure non costituisce reato. In questo caso, il PM chiede al giudice di archiviare il caso. Nell’ipotesi opposta, si da inizio all’azione penale che viene esercitata dal PM e che può dar luogo o al processo ordinario o a uno dei procedimenti speciali “più semplici o più rapidi”.

 

Ipotesi di Processo Ordinario

In questo caso, viene nuovamente avviata una fase processuale che prevede:

1. una udienza preliminare. Entro termini molto brevi della richiesta di rinvio a giudizio presentata dal PM, sia l’accusatore che la difesa dell’imputato, illustrano le rispettive ragioni davanti al giudice competente. Questi deve valutare se sussistono sufficienti indizi per proseguire il processo oppure è necessario troncarlo subito, per assoluta mancanza di indizi, o altre cause indicate dalla legge. In questa fase, il giudice può decidere o con una sentenza di non luogo a procedere, oppure con un decreto che dispone il giudizio. Con questo decreto si passa al dibattito.

2. dibattito. Davanti al giudice, alla presenza del pubblico, l’accusatore espone o illustra le prove che a suo avviso dimostrano la colpevolezza dell’imputato; la difesa, a sua volta, illustra e espone le prove che ne dimostrano l’innocenza, o l’attenuazione della responsabilità.

3. pronuncia della sentenza. Al termine del dibattito, sulla base delle prove esibite o documentate, il giudice pronuncia la sentenza che può essere di assoluzione o di condanna alla pena prevista dalla legge secondo che il giudice ritiene non provata o provata l’accusa.

Questa sintesi, oltre a non comprendere i procedimenti speciali, fa riferimento solo ai processi che si svolgono davanti al tribunale e alle Corti di assise. Il processo penale che si svolge davanti al pretore presenta alcune varianti tese, in genere, a rendere questi processi più semplici e rapidi “per reati di minore gravità elencati dal Codice”

La giurisdizione civile. A differenza di quella penale, l’azione non è affatto obbligatoria ma spetta agli interessati. Le parti dispongono con ampi poteri del processo, nel senso che esse non solo sono libere di condurlo come ritengono più opportuno nel loro interesse, ma nel senso che esse, se si accordano, possono poM termine anche prima della sentenza.

Il giudice conosce solo i fatti che le parti hanno adottato o provato, quelli che risultano agli atti. Egli deve pronunciarsi solo su quello che le parti hanno chiesto, anche quando fosse convinto che la giustizia esigerebbe una pronuncia anche su altre possibili domande, che però gli interessati non hanno interesse ad attuare.

La giurisdizione amministrativa. Per capire i principi amministrativi, bisogna esaminare la situazione soggettiva che va sotto il nome di interesse legittimo. Può accadere che un soggetto chieda alla Pubblica Amministrazione – PA – di compiere un determinato atto previsto dalla legge e subisca uno svantaggio conseguente alla risposta della PA, oppure può accadere che un soggetto subisca uno svantaggio come conseguenza della attività della PA. In questi casi, se la PA nell’adottare il provvedimento svantaggioso per un privato, viola la norma dei diritto, il soggetto svantaggiato, ha il potere di ricorrere a un giudice speciale, il TAR e, in appello, al Consiglio di Stato, e chiedere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo. Il soggetto non vanta alcun diritto soggettivo da rivendicare, perché egli non ha diritto alla concessione. Quindi il danneggiato può chiedere al giudice soltanto di annullare l’atto amministrativo perché illegittimo. Quando la PA commette illecito civile, contrattuale o extra-contrattuale (ad es. non rispetta un contratto di diritto privato da essa stipulato oppure mediante un suo comportamento materiale danneggia illegittimamente un privato) allora si ricorre al giudice ordinario. Al giudice amministrativo si richiede l’annullamento.

lalegge

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IL DIRITTO A UN GIUDIZIO NON ARBITRARIO

 

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato

 

L’articolo ribadisce il diritto della persona a poter essere sottoposta a un procedimento legale solo sulla base di prove certe e fondate sancite da leggi scritte e consensualmente accettate.
È la volontà della Comunità Internazionale, di eliminare i soprusi che nel corso della storia sono stati realizzati dai regnanti arrogatisi il diritto di decidere dei destino dei singoli secondo arbitrio: oggi invece è l’autorità stessa ad essere limitata dai diritti assoluti della persona e dal rispetto della legge.
Il giudizio penale, incidendo e limitando la libertà, deve essere formulato in modo da non compromettere altri diritti secondo il pieno rispetto della dignità e dei valore della persona.

 

Nella Storia

In ogni società, il potere di controllo e di sanzione è sempre stato presente, a garanzia degli accordi presi dal gruppo o dalla comunità più ampia.
Nell’evoluzione storica, si è esteso fino ad assumere l’arbitrio sul diritto di vita e di morte della persona; bastava un semplice biglietto del re perché chiunque potesse essere privato della libertà e trattenuto in carcere senza altra formalità.
Solo nel secolo XIII, le forti resistenze del ceto nobiliare e della nascente borghesia cittadina limitarono l’assolutismo monarchico. Per la prima volta, all’art. 39 della Magna Charta Libertatum dei 1215, si riconosceva che “Nessun uomo libero sia arrestato o imprigionato o mutilato o messo fuori legge o esiliato o danneggiato in nessun modo, (..) eccetto che per legale giudizio dei suoi pari o secondo la legge del regno”.
Si gettava così il primo fondamento per l’affermazione delle libertà costituzionali inglesi e per la storia delle libere istituzioni.
Durante la Rivoluzione Inglese si risottolineò con la Petition of Rights del 1628, il problema dell’arbitrio governativo a danno della libertà del singolo, richiamando il sovrano all’osservanza delle libertà sancite dalla Magna Charta. Ci si opponeva così ad un rescritto regio che permetteva l’arresto arbitrario dei cittadini.
Sempre in Inghilterra, il Parlamento approvava nel 1679 l’Habeas Corpus Act, “per meglio assicurare la libertà del suddito”, come il rescritto emanato dal giudice con il quale si ordinava al destinatario, fosse esso sceriffo, carceriere, o funzionario regio, di portare davanti al giudice entro tre giorni, il corpo di colui che si trovava in sua custodia. Qualunque cittadino inglese, acquistava il diritto di essere ascoltato dal giudice o di ottenere la libertà provvisoria dietro cauzione, con la sola eccezione del reato di tradimento.
Il documento, insieme al Bill of Righis, approvato dieci anni dopo, rappresenta la pietra miliare nella formazione dello Stato liberale moderno.
Sarà poi la Francia, esattamente un secolo dopo, a riconoscere nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino che “gli uomini devono essere liberi e uguali nei diritti definiti inalienabili e la cui conservazione è il fine di ogni associazione politica“. In particolare l’art. 7 precisa nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge”.
Vengono anzi previste delle sanzioni per coloro che eseguano o determinino arresti arbitrari. La portata rivoluzionaria di questo articolo appare chiara ricordando che, precedentemente, il sovrano poteva arrestare e trattenere in carcere chiunque volesse senza altra formalità che la compilazione di un suo semplice biglietto, la “lettre de cachet”.
Il XX secolo vede per la prima volta la difesa di tale diritto nella Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1936. Infatti, nel capitolo dedicato ai diritti e doveri fondamentali dei cittadini, dopo aver garantito l’inviolabilità della persona, si affermava che “nessuno può essere messo in stato di arresto se non per decisione del tribunale e con sanzione del procuratore “.
Nel secondo periodo postbellico a causa delle sistematiche violazioni dei diritti in questione, nasce l’esigenza di riaffermare in modo incisivo e soprattutto in ambito internazionale, il diritto di non subire arbitrariamente arresti, detenzioni o esilii.

 

Oggi

La non arbitrarietà di un giudizio presuppone che, esista un consenso sostanziale intorno ad una serie ben definita di leggi e di norme regolatrici della condotta pubblica e privata sia per la popolazione che per il potere giudiziario. Violarle significa commettere una colpa riconoscibile, come tale, da tutti e quindi punibile in modo commisurato e corrispondente all’offesa recata.
Purtroppo, nell’arco della storia, la legge penale è stata spesso promulgata in funzione dei rapporti di forza esistenti nell’ambito dello Stato e della finalità di trasformazione politica che l’élite al governo, ha voluto perseguire. Spesso ha utilizzato la legge penale come uno dei più efficaci strumenti di modificazione dei comportamenti sociali e delle ideologie esistenti.
Ciò è avvenuto e avviene tuttora in modo evidente in quasi tutte le società contemporanee anche se con modalità diverse: dall’arresto arbitrario, all’obbligo dell’esilio.
Una tra le più importanti e collegate al senso dell’arbitrarietà è stata quella dei fenomeno della giustificazione della colpa o dei reato, non solo a titolo individuale, ma anche e soprattutto, di gruppo o di comunità più ampia. Si è preteso con esso, in presenza di determinati reati o crimini commessi, attivare forme di legittimazione degli atti compiuti mediante l’appello a principi dichiarati superiori a quelli violati in nome di un presunto e irraggiungibile interesse o bene collettivo. Tale processo comporta la de-umanizzazione della vittima, attraverso la formulazione di valutazioni negative a suo conto o di quello di un gruppo o collettività per ragioni politiche, etniche o religiose, sino allo svifimento radicale della sua identità socio-culturale e alla sua assegnazione ad una specie inferiore. Un processo simile comporta anche la de-colpevolizzazione di chi lo commette, definendo l’atto come se non fosse un reato e coprendolo di giustificazione arbitraria per chi ne venga a conoscenza, cercando così di costruire nella collettività, atteggiamenti ed elementi culturali appropriati alla stessa giustificazione.
In questo modo sono stati alimentati i crimini dei razzismo, dell’anti-semitismo, della xenofobia, della pulizia etnica o dell’opposizione al regime politico sino al terrorismo contro persone innocenti, ignare ed inermi quali le donne e i bambini.
Il grado estremo di abiezione, sia pure etichettato “politico”, è la frequenza con cui nel mondo contemporaneo, si stanno ancora determinando atti di violenza e di aggressione collettiva mascherati con facilità da intenzioni ideologiche ed etico-politiche che li fondano.

 

Testimonianze ed Effetti Nefasti di un Potere Arbitrario

Sarebbe lunghissimo citare tutti i luoghi e ricordare tutte le violazione dell’articolo 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Consapevoli di questo, le Nazioni Unite hanno riaffermato il loro impegno sia con documenti specifici che istituendo gruppi di lavoro.
Si ricordano alcuni casi, particolarmente significativi nei quali le autorità hanno agito arbitrariamente sul singolo o su un gruppo.
In Grecia, durante il regime dei colonnelli negli anni ’70, l’arbitrio era esercitato con crudeltà. Basti ricordare uno dei simboli della resistenza greca Alessandro Panagulis, imprigionato, torturato e infine ucciso dai militari al governo e di cui è narrata la vita e le sofferenze nel libro “Un Uomo” di Oriana Fallaci.
Tra gli anni ’70 – ’80, quasi tutti i Paesi dell’America Latina erano governati da regimi dittatoriali e autoritari i quali, per attuare la c.d. politica della “Sicurezza Nazionale” e quindi per eliminare gli oppositori ed i presunti tali, agivano in modo arbitrario per tenere inalterato il loro potere.
Uno dei casi recenti ed eclatanti è quello dell’Argentina dove, il triste fenomeno dei desaparecidos riporta immediatamente alla memoria la crudeltà dei militari al potere. Tra i numerosi film realizzati su questo periodo della vita argentina, si ricordano “La notte delle matite spezzate” di Costa Gravas e “Historia Oficial di F. Solanos.
Vanno ricordati anche i Paesi del socialismo reale che, in violazione all’articolo 9, utilizzavano strumenti inumani rinchiudendo in manicomio – gulag – gli oppositori per costringerli al silenzio.
Ancora, altri Paesi come l’Iraq e l’Iran vengono spesso menzionati perché esercitano la propria sovranità attraverso un apparente arbitrio. Non meno gravi sono le violazioni in atto in altre aree geografiche, valga ancora come esempio il trattamento discriminatorio inflitto dalla Turchia alla sua minoranza Curda.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana nell’art. 13 regola i poteri della pubblica sicurezza in casi eccezionali di necessità e di urgenza. La procedura normale, che esige, per qualsiasi restrizione della libertà personale, l’ordine dell’autorità giudiziaria, è lenta e non può essere sempre seguita. Le ipotesi in cui è possibile derogare sono tassativamente indicate dalla legge: arresto in flagranza e il fermo degli indiziati di reato.
L’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria. Se questa non li convalida nelle successive 48 ore, s’intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
L’art. 13 stabilisce inoltre i limiti massimi della carcerazione preventiva. Questa disposizione mira a reprimere l’abuso consistente nel prolungare la custodia preventiva indefinitivamente, in attesa della decisione definitiva dei magistrato.
L’art. 24 dichiara poi che, “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e luogo del procedimento”. La titolarità di un qualsiasi diritto da parte di un soggetto avrebbe scarso significato se, in caso di contestazione, non potesse agire in giudizio per ottenerne il riconoscimento e l’attuazione. Di qui l’importanza di una garanzia costituzionale affinché tutti possano “agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. È quindi un diritto fondamentale, attribuito non solo ai cittadini, ma a tutti.
Connesso all’art. 24 della Costituzione, è l’art. 25, il quale afferma che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Infatti, garanzia fondamentale di un giusto processo è che il giudice abbia insieme la capacità tecnica e l’imparzialità necessaria per ben giudicare.
L’art. 25 continua affermando sia il principio formale della legalità delle pene, che quello sostanziale della irretroattività della legge penale. Il primo garantisce il cittadino contro gli arbitri del potere esecutivo, essendo i reati e le pene definiti dalla legge, cioè da quella fonte che è insieme la più alta dopo la Costituzione, e quella che emana dal Parlamento. Il secondo, il principio dell’irretroattività, invece, difende il cittadino dallo stesso legislatore al quale vieta di punire fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che li sanziona. Nessuno infatti potrebbe sentirsi libero e sicuro temendo che un atto considerato lecito oggi potesse venir punito da una legge futura.

lalegge

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DIRITTO AD UN GIUDIZIO INDIPENDENTE E IMPARZIALE

 

Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, alfine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta

 

Rientra nella dinamica sociale l’esercizio del potere giudiziario, pari a quello dei potere legislativo ed esecutivo.
Esso va esercitato nel pieno rispetto di condizioni che lo rendono equo e giusto nei confronti dei cittadini che risultano uguali dinanzi alla legge.
Ciò che nella storia si è differenziato, sono la fondatezza e le modalità di esercizio di tale potere.
Per fondatezza si intende la fonte da cui tale potere scaturisce: nei paesi a democrazia avanzata, il potere e i suoi limiti sono disegnati dalla legge. In passato, invece, il re deteneva il fondamento legittimo di ogni potere incluso quello di vita e di morte sui suoi sudditi delegandolo anche ai suoi fidati, al di fuori di controlli e limiti.
Per modalità si intende l’esercizio dei potere, ossia la scansione dei rito secondo tappe prestabilire che assicurino il più possibile il rispetto della persona e il suo diritto ad una udienza equa e pubblica.
Per udienza equa si intende un rito certo nella sua fondatezza e nelle sue modalità di svolgimento, elementi che devono tendere al pieno rispetto della persona umana. Ma non solo: si vuole sottolineare, ancora una volta, la condanna a quei mezzi illeciti e violenti che possono essere utilizzati, quali la tortura per esempio e che ledono l’equità dei giudizio.
Il primo inciso dell’articolo “.in posizione di piena uguaglianza …”, sottolinea che il diritto ad avere un processo equo è irrinunciabile per ogni persona di tutti i popoli dei mondo.
Si vuole promuovere un principio fondamentale dello stato liberale democratico: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e all’amministrazione della giustizia, evitando che ci siano soggezioni diverse, di vantaggio per alcuni e di svantaggio per altri, basate sulla casta, sul censo, sulla razza, sul sesso, sulle convinzioni politiche e religiose e su qualsivoglia altra discriminante.
Ancora: “… davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale…”: si tratta di due garanzie irrinunciabili. La prima viene posta a garanzia del funzionamento dello stesso tribunale.
Questo infatti, nella sua attività non può e non deve dipendere, cioè non deve trovare altra legittimazione, se non nella legge, escludendo perciò qualsiasi forma d’influenza o peggio, di ingerenza o di comando, provenga essa dal governo, da una classe sociale, da poteri occulti o criminali, o dalla sfera politica.
È evidente come la pressione esercitata da una di queste sfere su un tribunale, comporterebbe immediatamente un uso distorto e guidato dalla partigianeria della amministrazione della giustizia, tanto da vanificare la garanzia dell’imparzialità.
La seconda è posta invece a diretta garanzia del cittadino nei confronti dell’amministrazione della giustizia che dovrà perseguire come unico scopo la legge, senza assumere mai la qualità di parte rispetto alla causa che giudica.
Gli obiettivi perseguiti dalla norma, sono così, l’affermazione di una serie di principi quali la certezza dei diritto, una accurata indagine sull’esistenza dei presupposti sulla quale si dovrà basare l’eventuale condanna penale.

 

Nella Storia

Nel 1200 lo strumentario classico, rappresentato da giuramenti ed ordalie è ormai in disuso. Questi erano strumenti che ignoravano totalmente sia il fatto che il diritto: nel giuramento il convenuto, fosse esso autore di un reato o pretendente di un diritto, giurava la sua verità davanti alla divinità aggiungendo, ad esempio, di poter essere fulminato se mentiva; nel duello i due contendenti si sfidavano e H più forte era il titolare dei diritto; nell’ordalia il convenuto era chiamato a superare una prova, ad esempio quella di attraversare il fuoco senza ustionarsi o di essere immerso nelle acque gelide, perché l’impuro avrebbe galleggiato rifiutato dalle acque; l’esito positivo lo avrebbe salvato.
Si è arrivati, poi, al c.d. Inquisitorio, caratterizzato dall’assoluta segretezza di tutti gli atti e dell’udienza, nonché dalla mancanza di un difensore. Il giudice, da spettatore impassibile, diventava campione del sistema: l’inquisito, colpevole o meno, va obbligato a dire quanto sapesse. Tale forma fu mantenuta immutata fino al secolo dei Lumi. In qualsiasi caso, la tortura, in un quadro culturale che considerava la persona colpevole pregiudizialmente, diventava lo strumento per arrivare alla verità, qualunque essa potesse essere.
Già sul finire dei XVII secolo, l’Inghilterra apriva la strada ad una rivoluzione liberale: con l’Habeas Corpus si sanciva il diritto di un giudice indipendente a conferire con chiunque fosse in stato di arresto presso sceriffi o amministrazioni di Contea.
Precursori, alla vigilia della Rivoluzione Francese, della pubblicità dell’udienza, furono François Marie Arouet o Voltaire in Francia e Cesare Beccaria in Italia, che tra il 1762 e il 1777 invocarono l’introduzione di regole certe e trasparenti nel processo.
La Rivoluzione Francese andò oltre facendo sì che le cariche giurisdizionali, esclusivo appannaggio fino a quel momento della nobiltà che le riceveva in dono dal sovrano, non fossero più ereditabili e alienabili.

 

Oggi

Le problematiche legate all’attuazione di questo diritto non sono esaurite nonostante il tempo trascorso.
Se, in regimi a forte valenza ideologica, integralista e militare, il diritto ad un processo equo è strutturalmente violato per principio, essendo l’esercizio della giustizia direttamente controllato dai governi nel combattere il nemico politico, casi di violazione si incontrano ancora ed anche nelle più democratiche società contemporanee. È il caso, per esempio, di giudici che hanno giurato fedeltà alla legge e allo Stato e che nello stesso tempo fanno parte di associazioni che, seppur legali, pongono dei vincoli di fedeltà agli associati, spesso forti quanto quelli posti dallo Stato. Lo stesso dicasi, in Italia, per i ventilati progetti di porre alle dirette dipendenze dei Ministro di Grazia e Giustizia o dell’Interno, e quindi del governo, il Pubblico Ministero che è colui che esercita l’azione penale: un’indubbia garanzia di impunità e disuguaglianza di fronte alla giustizia.
Sempre in Italia, poi, più che in altri paesi, i processi sono affetti da una disfunzione dovuta al tempo della loro durata, che mette in discussione il diritto sancito in questo articolo della Dichiarazione Universale. Non può certo ritenersi equo un processo che giunge alla sua pronuncia definitiva forse anche dopo una decade, parte della quale il protagonista la trascorre in carcere in attesa di giudizio. La gravità del fenomeno è evidente tanto che in queste circostanze si può ricorrere presso il Tribunale dei Diritti dell’Uomo dell’Aja, che ha la facoltà di condannare lo Stato che, a causa dei ritardi nel funzionamento dell’amministrazione della giustizia al suo interno, trasgredisce questo articolo.
In molti ordinamenti nazionali, è infatti ammessa la possibilità di trattenere in carcere l’imputato in attesa di giudizio, cioè in assenza di una ‘ condanna. Escluso nei paesi anglosassoni che adottano un sistema accusatorio puro, l‘adversary system, grazie al quale gli interventi coattivi sulla persona sono illegali, nello ordinamento italiano per esempio, tale istituto è chiamato custodia cautelare e, grazie ad un recente intervento legislativo, ha assunto connotati più precisi e democratici nelle condizioni che lo presuppongono. In Italia, fino al 1988, la carcerazione preventiva poteva durare fino a 10 anni e 8 mesi.
A livello internazionale, oltre alla Corte internazionale di giustizia che ha sede all’Aja, esiste a Strasburgo la Corte europea dei diritti dell’uomo, nata dalla ratificazione tra gli Stati europei della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il numero dei ricorsi a tale Corte si è accresciuto nel corso degli anni, testimoniando l’interesse verso un sistema di protezione collettiva dei diritti dell’uomo. Un problema tuttavia è la disuguaglianza tra lo Stato e l’individuo, poiché quest’ultimo non dispone di un diritto di iniziativa presso tale Corte, ma deve ricorrere ad intermediari.
A livello ONU esiste invece dal 1977 una Commissione dei diritti dell’uomo, che non ha potere giudicante, ma svolge un’attività di vigilanza sulla tutela dei diritti umani, occupandosi delle numerose denunce che arrivano alle sedi di New York e Ginevra.

 

Nella Costituzione Italiana

Nell’ordinamento italiano, i riferimenti a questo articolo si riscontrano nell’art.24 della Costituzione dove si sancisce che tutti hanno il diritto di accedere ad una tutela giurisdizionale dei propri diritti, nonché nel Titolo IV della stessa, dedicato espressamente alla magistratura.
Il potere giudiziario, terzo potere dello Stato, è stato oggetto di particolare cura da parte della Costituzione, la quale si è preoccupata di stabilire i mezzi idonei ad assicurarne l’indipendenza e l’imparzialità. Soltanto così, il potere giudiziario può vigilare sulle norme dell’ordinamento giuridico perché vengano rispettate e garantirne, quindi, l’esatta applicazione. Un potere giudiziario succube delle sollecitazioni della politica non sarebbe in grado di garantire a tutti i cittadini il bene essenziale della certezza del diritto.
Qualificanti sono gli artt. 101 e 104 che sottolineano come l’amministrazione della giustizia sia in nome del popolo, come i giudici siano soggetti solo alla legge e come la magistratura costituisca un ordine autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere.

 

Il Tribunale nelle Civiltà Classiche

La parola tribunale, di origine latina, designava propriamente la tribuna dalla quale il giudice esercitava la GIUSTIZIA.
Nell’epoca greca, grande rilevanza assumeva il tribunale popolare, organo giudicante che aveva anche il controllo sui magistrati nelle cause di azione pubblica nelle quali, cioè, si discuteva un caso di interesse pubblico della polis – la città. I giudici popolari dovevano dare il proprio voto scegliendo fra le due tesi dell’accusatore e dell’accusato; non spettava loro decidere la pena, ma solo accordarla in base alle richieste delle due parti.
Ogni accusato aveva il dovere di difendersi da solo. Non esistevano avvocati, però, chi non avesse avuto abilità sufficienti poteva rivolgersi ad oratori in grado di scrivere discorsi su commissione. Famosi oratori furono Demostene, Isocrate e Lisia; quest’ultimo si impegnò spesso in cause private.
Da notare il numero dei giudici popolari previsti per la composizione di questi tribunali: 501 per le cause pubbliche e 401 o 201 per quelle private che rendevano veramente “popolari” quelle giurie. 1 tempi processuali erano molto veloci, poiché la difesa e l’accusa potevano pronunciare al massimo due discorsi, per cui il processo più lungo durava 4 giorni.
A Roma, nella procedura privata si distinguevano due fasi: il processo “in iure”, che si svolgeva davanti ad un’autorità che fissava i termini della controversia, e apud iudicem o in iudicio, davanti a un giudice o arbitro privato, scelto in accordo tra le due parti.
Le cause criminali venivano inizialmente dibattute davanti al popolo riunito in comizio: da qui derivò il giudizio di popolo vivo.
Durante il Medioevo, nei paesi germanici, gradualmente si arrivò a forme di rappresentanza popolare in una giuria.
A partire da Cesare, ogni municipium italico poté avere una propria amministrazione di giurisdizione civile, ma per i processi che facevano capo al potere di un magistrato bisognava rivolgersi a Roma. Nelle province questo compito spettava al magistrato preposto.
Con l’avvento dell’impero, cominciarono ad esautorarsi le funzioni dei giudici privati e delle giurie popolari, per trasferirsi ai magistrati. Nel VI secolo d.C., Giustiniano, con un suo editto, fissò l’esercizio della giustizia secondo le varie competenze territoriali.
Famosi nella letteratura e nella storia furono i processi di Cicerone contro Verre e Catilina.

lalegge

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DIRITTO ALLA DIFESA E ALLA GIUSTA PENA

 

  1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.
  2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.

 

Questo articolo, insieme agli articoli 8 e 10 della stessa Dichiarazione Universale, riguarda la sfera del delicato rapporto che la persona ha con la giustizia e con la sua organizzazione.
La struttura di questo rapporto e i principi che la regolano sono degli indicatori della democraticità vissuta da un determinato gruppo sociale organizzato come Stato. Nello stesso articolo sono previsti anche dei principi di fondamentale importanza per la tutela della persona di fronte alla legge la quale, dovendo essere rispettata da tutti, potrebbe imporre regole e norme in contrasto con la Dichiarazione Universale. È quanto avviene tuttora negli Stati autoritari e dittatoriali, condannati per questo dalla Comunità Internazionale.
Si pensi ad esempio alle leggi che favorivano e regolavano il sistema dell’apartheid.
Il contenuto di questo articolo implica direttamente quello espresso nell’articolo 9 della stessa Dichiarazione.

 

Nella Storia

Il processo penale è intimamente collegato alla vita e alla struttura politico-sociale dei popoli e per tale motivo appare particolarmente suggestivo.
In relazione allo sviluppo storico, il processo assume essenzialmente tre forme: l’accusatoria,l’inquisitoria e la cosiddetta mista.
Nella forma accusatoria, il processo che è essenzialmente pubblico, è processo di parti, soprattutto accentrato nella fase del dibattimento con l’intervento di tre distinti organi, espressione di diverse funzioni: l’accusa, la difesa e il giudice.
A forma accusatoria furono i processi penali greco e romano che nella loro espressione più tipica videro un cittadino sostenere l’accusa, l’accusato stesso o altri per lui reggere l’onere della difesa, e il popolo decidere con il suo voto.
Nella forma inquisitoria, caratterizzata dalla mancanza della pubblicità e della oralità e pertanto dal segreto e dalla forma scritta, e particolarmente legata al sistema delle cosiddette prove legali che tendono a giustificare la tortura, la funzione del giudice appare dominante, e assorbente quella della difesa e dell’accusa. Tale forma fu particolarmente elaborata dal processo penale e canonico durante il Medioevo.
La forma inquisitoria riduce molto le garanzie dell’imputato che resta affidato alla mercé di un soggetto, il giudice, al tempo stesso accusatore. Questi, posto in tale ambiguità, non saprà mai valutare obiettivamente il caso.
La forma mista si affermò con la Rivoluzione Francese, che nel travolgere il sistema inquisitorio, non ripristinò il sistema accusatorio puro, ma, col Code d’Istruction Criminelle del 1808, seguito dalla massima parte dei codici moderni, divise il procedimento in due fasi: una fase istruttoria, dominata prevalentemente dal segreto e nella quale predominavano le regole inquisitorie e una fase di dibattimento, essenzialmente legata alla pubblicità, oralità e contraddittorio e nella quale prevalevano le regole accusatorie.
Naturalmente a seconda delle idee politiche dominanti presso i singoli popoli, viene posto l’accento, ora sulla fase istruttoria, ora su quella del dibattimento.
Relativamente all’Italia, la forma mista è stata tipica dell’esperienza del Codice Rocco rimasto in vigore per ben oltre mezzo secolo e cioè fino alla riforma del Codice di Procedura Penale del 1989. Questa riforma, risultato di una lunga marcia iniziata all’indomani del crollo del regime fascista, voleva essere maggiormente aderente alle istanze dell’ordinamento democratico e ad una più ampia considerazione della persona, che poteva essere raggiunta soltanto attraverso la differenziazione, ottenuta appunto con la riforma, tra Pubblico Ministero e Giudice, i due soggetti preposti allo svolgimento del processo.

 

Oggi

L’articolo garantisce alla persona il diritto di ricorrere ad un tribunale competente per ogni eventuale violazione dei diritti che ad essa sono riconosciuti; prevede, inoltre, il diritto di ognuno ad una udienza equa e pubblica davanti ad un tribunale indipendente da realizzarsi con tutte le garanzie necessarie per la difesa della persona.
In pratica protegge il diritto di ricorso alle autorità nazionali, quello di accesso agli organi amministrativi e giudiziari, il diritto di offrire assistenza legale a detenuti e vittime e il diritto di assistere ai processi.
Di fondamentale importanza per garantire la persona è la disposizione che la fa presumere innocente fino a quando non viene provata la sua colpevolezza.
Inoltre riconosce e garantisce a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, quello inviolabile alla difesa in ogni ambito e grado del procedimento; garantisce, poi, la certezza del diritto attraverso la pubblicità del giudizio e mediante la nomina di un giudice che sia soggetto solo alla legge; questo a garanzia complessiva dell’imparzialità della giustizia e quindi dell’uguaglianza di trattamento.
È necessario, infatti, che sia assicurata alle parti, la “parità delle armi” e quindi la “parità dei risultati”. La tutela giudiziaria viene vista come una funzione strumentale per realizzare diritti e interessi di qualsiasi natura e il diritto di difesa come un corollario dell’uguaglianza che resta il “tessuto connettivo delle garanzie processuali”.
Il diritto al giudizio è una garanzia “di mezzi”, non “di risultato”.
Il diritto alla difesa presenta un duplice concorrente significato: quello del diritto a far valere le proprie ragioni e quello del diritto ad essere assistiti da difensori tecnico-professionali.
Alla difesa, intesa come diritto dell’imputato, si affianca la difesa considerata come garanzia oggettiva per un corretto svolgimento del giudizio.
In questo articolo si riscontra, inoltre, il principio della irretroattività delle leggi penali, previsto anche dalla Costituzione Italiana. Tale principio comporta che un individuo non possa essere punito per un fatto che, successivamente al suo compimento, venga ritenuto un reato.
Rafforza la garanzia di tutela dei cittadini, i quali devono sapere, o per lo meno poter sapere, quello che è permesso e quello che è vietato, criterio che consente di risalire al principio superiore dell’attualità della legge penale indicato col motto latino tempus regit actum, il quale implica che l’efficacia della legge sia circoscritta al tempo in cui questa è in vigore. L’unica deroga al principio della irretroattività della legge penale è costituita dal concetto della retroattività della legge più favorevole al reo. Questo significa che tra una legge precedente al reato commesso e una posteriore, si applica quella la cui sanzione è più lieve per l’imputato ma tenendo presente che, una legge modificatrice di questo genere, è pur sempre una legge in base alla quale si punisce il reo.
In questo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani appare, per la prima volta, un riferimento al diritto internazionale quando dice che “Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che al momento in cui sia stato perpetrato non costituisce reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale…”. Viene rispettato prevalentemente in via consuetudinaria o convenzionale. Per quanto riguarda l’osservanza delle singole regole del diritto internazionale, essa è affidata ai singoli Stati sulla base di due principi fondamentali: pacta sunt servanda e consuetudo est servanda.
Il primo costituisce una norma formale di carattere consuetudinario che stabilisce l’obbligo per gli Stati contraenti un accordo, di adempiere gli impegni da essi assunti con la stipulazione del medesimo. Inoltre, si fa riferimento al fatto che le norme internazionali che regolano i rapporti tra Stati, sono soprattutto di natura consuetudinaria.
Pur mancando, dunque, nella Comunità Internazionale un apparato istituzionalizzato dotato di specifici poteri delegati, è sempre presente un’autorità, intesa come autorità sociale a cui gli Stati, singolarmente considerati, sono sottoposti.
Le forme di collegamento tra diritto internazionale e diritto interno, previste dall’ordinamento italiano sono l’adattamento automatico e l’ordine di esecuzione. Il primo si ha quando si attua una trasformazione delle norme internazionali in diritto interno; il secondo, quando uno Stato che ha stipulato un trattato internazionale, recepisce le norme contenute in tale accordo nel proprio ordinamento interno.
Incerto è il rapporto fra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e le norme costituzionali; dovendosi ritenere che queste ultime prevalgono sulle prime, quali espressione della volontà costituente di derogare al principio posto nell’art. 10 della Costituzione Italiana, con la conseguenza che la legge ordinaria in contrasto con una norma di diritto internazionale, generalmente riconosciuta, ma conforme ad una norma costituzionale, sarebbe da considerare costituzionalmente legittima.
Il rapporto si inverte quando il contrasto tra le due norme non è originario ma susseguente quale effetto di una modifica intervenuta in una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta. In tal caso, a cedere dovrebbe essere la norma costituzionale del singolo Paese, non più in armonia col principio dell’adattamento automatico. Come conseguenza, sorgerebbe negli organi di revisione costituzionale, l’obbligo di modificare la norma stessa per adeguarla alla norma di diritto internazionale, così come essa risulta modificata.

 

Nella Costituzione Italiana

L’articolo 11 della Dichiarazione Universale è in connessione con gli artt. 24 e 25 della Costituzione Italiana.
L’art. 24 concerne la facoltà per ogni individuo di ricorrere ad un tribunale competente per la difesa dei propri interessi, nel rispetto della inviolabilità del diritto alla difesa, di cui è tipica espressione in contraddittorio, dovendo valere sempre per ogni tipo di giudizio in cui sia in gioco la libertà personale dell’individuo. Garantisce la difesa ai non abbienti e garantisce il principio della riparazione degli errori giudiziali.
Il diritto alla difesa è completato dal precetto contenuto nell’art. 25 della Costituzione che in prima istanza ha la funzione di garantire l’effettività del diritto stesso nel momento della nomina del giudice, con l’enunciato: “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Rilevante è anche la portata del secondo comma dello stesso articolo, in virtù del quale si tutela il cittadino dall’inflizione di pene che non siano specificatamente previste dalla legge, ciò che viene dato in una nota frase: nallam crimen, nulla poena sine praevia lege poenali, ossia nessun crimine può essere imputato e nessuna pena può essere inflitta se non sono previsti dalla legge.
Gli enunciati degli articoli 24 e 25, riguardo la certezza del diritto, l’equità del processo, la irretroattività delle leggi penali, le quali importano che la punizione non si applichi a fatti (commissivi od omissivi) o rapporti sorti prima che la legge punitiva di quei fatti entrasse in vigore, sono di tale importanza per la tutela dei diritti e, della stessa certezza del diritto, che si è ritenuto essenziale rispettarli non solo a livello di legge penale statale, ma di estendere la loro disciplina in ambiti più globali di tutela dei diritti umani ossia in ambito universale.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA VITA PRIVATA

 

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

 

Ogni persona possiede il diritto alla riservatezza, alla tutela della propria vita privata e familiare, della propria corrispondenza o, più generalmente, il diritto alla privacy. Questo diritto ha carattere fondamentale, sia che venga valutato dal punto di vista della persona a cui appartiene (profilo soggettivo), sia che venga considerato dal punto di vista dello Stato che è obbligato a garantirne l’esercizio, tanto rispetto al proprio ordinamento interno che di fronte alla comunità internazionale (profilo oggettivo).
La persona che subisca una interferenza arbitraria nella propria vita familiare o veda lesi il suo onore o la sua reputazione, viene privato della propria dignità, al punto che il suo status si avvicina a quello dello schiavo, pure non essendo egli stesso l’oggetto della compravendita. L’importanza del diritto da tutelare ne motiva, quindi, la natura fondamentale, giustificando il duplice obbligo che lo Stato ha sia rispetto al proprio ordinamento, sia rispetto all’ordinamento internazionale.
All’interno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la preoccupazione per la tutela del diritto alla privacy esprime ancora una volta la volontà generale, all’indomani della II guerra mondiale, di cancellarne i crimini e gli oltraggi alla dignità umana, stabilendo un sistema di regole organico, come garanzia da futuri possibili abusi.
Questa stessa volontà è rintracciabile nelle disposizioni previste dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950) e dai Patti sui Diritti Umani dell’ONU (1966). In entrambi i casi, l’ispirazione all’art. 12 della Dichiarazione Universale è palese e sia l’art. 8 che l’art. 17 rispettivamente, sembrano quasi ricalcarne il testo, malgrado la norma della Convenzione se ne discosti in parte, elencando una serie di eccezioni al diritto tutelato.
Al contrario, la formulazione stessa dell’art. 12 della Dichiarazione consente un esercizio pressoché incondizionato del diritto alla privacy. Di fatto, si permette una intromissione nella sfera privata del singolo, e quindi nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua reputazione, solo qualora questa non sia né arbitraria né illegale. Indubbiamente, i limiti di arbitrarietà e di illegalità rappresentano una garanzia adeguata e sufficiente solo all’interno di un regime democratico e costituzionale, in cui esistano dei parametri di valutazione idonei. All’interno di un sistema dittatoriale, invece, non sarebbe difficile considerare legale o non arbitraria una ingerenza palese nella sfera più privata della persona, mancando dei criteri oggettivi a cui fare riferimento.

 

Nella Storia

Il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, come pure l’inviolabilità del domicilio trovano una tutela particolare nella Francia rivoluzionaria. Gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Francese sono caratterizzati da una tendenza costante alla modificazione dei diritti da poco acquisiti. A questo fine, si redige la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino e, sempre per questo, si susseguono le diverse Costituzioni giacobine.
In particolare, la libertà e la segretezza nella corrispondenza vengono affermate già nella Costituzione del 1790, anche se erano già state enunciate in Inghilterra nel 1649.
Il principio dell’inviolabilità del domicilio viene affermato sia nelle Costituzioni nordamericane che in quelle francesi, del 1791 e 1793 e poi nello Statuto Albertino, all’art. 27.
Malgrado la garanzia della codificazione, già nel 1792, Danton chiede e ottiene poteri più vasti riguardo alle visite domiciliari per cercare le armi non denunciate.
Sulla stessa linea, in Italia, dal 1859 il Codice Penale e le leggi di polizia, risalenti al fascismo, ma tuttora vigenti, hanno concesso notevoli eccezioni, consentendo la perquisizione di qualunque luogo pubblico o privato, qualora, anche per indizio, vi sia sospetto dell’esistenza di armi.

 

Oggi

Esiste un legame diretto fra il diritto da tutelare e l’ambiente politico in cui concretamente questa tutela viene disposta.
In questo modo, un ordinamento può prevedere una salvaguardia solo apparente di un determinato diritto, senza che il sistema generale delle leggi consenta alla persona di difendersi dagli abusi del proprio Governo.
In questo senso, si sottolinea solitamente la necessità che si abbia cura di tutelare il singolo diritto in particolare, ma ricordando, allo stesso tempo, che condizioni essenziali a questo, sono la democrazia e il pluralismo.
Purtroppo, ancora oggi esistono casi più o meno gravi di intromissioni nella sfera privata del singolo e quindi di violazioni sia sistematiche sia eccezionali della sua privacy. In determinati regimi illiberali, la corrispondenza, il domicilio e persino la reputazione della persona umana, vengono ogni giorno violati. È il caso di diversi Paesi dell’America Latina e dell’Asia; è stato così per tanti anni, nel blocco dei Paesi dell’Est, inteso tanto in senso geografico che ideologico.
Sempre più frequentemente, si verificano intromissioni di carattere diverso, ma non meno gravi per il diritto. Anche all’interno di ordinamenti più garantisti, infatti, un uso distorto del progresso tecnologico ha permesso violazioni inaccettabili della privacy individuale. È il caso delle manipolazioni nelle reti telematiche, delle microspie o di qualsiasi utilizzo della libertà di informazione che sfoci nell’abuso. Si confronti a riguardo la scheda dell’articolo 19.
Oppure, esistono disposizioni particolari all’interno di un ordinamento, generalmente motivate dalla tutela dell’interesse pubblico, che consentono limitazioni eccezionali. È il caso, per esempio, della nostra legge antimafia del 1982.
All’interno della Comunità Internazionale degli Stati, ci sono meccanismi che consentono un certo margine di pressione sullo Stato, che si renda colpevole di queste violazioni. Sia all’interno del Paese che nelle relazioni fra Stati, infatti, si sta costruendo una rete di dipendenze reciproche crescenti. La positiva interdipendenza esistente fa sì che uno Stato non sia del tutto autonomo almeno per alcuni aspetti. In questo senso, isolare economicamente una nazione, ad esempio con sanzioni economiche, rappresenta uno strumento di persuasione molto efficace.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana, pressoché contemporanea alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, testimonia la stessa preoccupazione del legislatore nazionale e di quello internazionale, di tutelare il diritto alla privacy all’interno della casa, della famiglia, riguardo alla corrispondenza o all’onore.
L’Assemblea Costituente valutò tanto importante la salvaguardia di questo diritto da ritenere che meritasse il grado di tutela più elevato nell’ordinamento: la garanzia costituzionale.
Il diritto tutelato in questo articolo della Dichiarazione Universale nella Costituzione Italiana viene considerato separatamente in due articoli: l’art. 14 sull’inviolabilità del domicilio e l’art. 15 sulla libertà e segretezza della corrispondenza che non a caso sono collocati accanto alla inviolabilità della libertà personale e ne seguono la medesima disciplina.
In particolare, l’art. 14 dispone: “Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”.
Per evidenziare il rapporto con l’art. 12 della Dichiarazione Universale, è interessante circoscrivere la nozione costituzionale di domicilio. In questo contesto particolare, infatti, si vuole indicare la relazione fra un luogo e una persona nella quale si realizzi la privacy di quest’ultima. In questa nozione rientrano la sede degli affari e degli interessi di un individuo, la sede di dimora abituale oppure occasionale e temporanea. Il diritto tutelato è evidentemente lo stesso di cui tratta la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e, in entrambi i casi, è un diritto a cui viene attribuito un ruolo fondamentale nella difesa della persona e della società.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI MOVIMENTO E DI RESIDENZA

 

  1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
  2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

 

L’evoluzione delle delimitazioni territoriali ha comportato sia la necessità di proteggere le politiche dei vari paesi che quella di permettere la libertà di movimento delle persone.
Dall’interno e dall’esterno di ogni paese deve essere garantita la possibilità di movimento di chiunque decida varcare i confini di Paesi diversi dal proprio e nello stesso tempo questo non deve pregiudicare la possibilità di un suo possibile rientro in patria. Inoltre, chi si trova al di fuori del proprio paese di origine, deve essere tutelato nei suoi diritti compresa la possibilità di divenire residente del paese di accoglienza e godere di ciò che questo status prevede. Le motivazioni che spingono uno o più individui a lasciare il proprio paese sono ovviamente di natura diversa e ci sarà differenza di bisogni tra chi per turismo soggiorna poco tempo in un Paese straniero, chi vi è chiamato per le sue capacità professionali e chi vi cerca una fonte di sostentamento economico.
Negli ultimi 30 anni, l’irregolarità della distribuzione delle ricchezze, la particolare condizione di squilibrio economico tra l’Occidente e i paesi del Sud del mondo hanno reso particolarmente significativo il movimento di unità umane in cerca di lavoro, determinando la nascita di una particolare figura di migrante. È di fronte ai bisogni di questi individui che i Paesi di accoglienza devono regolare le loro decisioni in materia di tutela dei lavoratori stranieri ed è sempre di fronte a questi ultimi che spesso sono state prese quelle decisioni restrittive che oggi rendono pressoché impossibile, a molti individui e gruppi, una libera circolazione fra gli Stati.
Questo è vero anche perché ogni persona ha diritto di scegliere il luogo in cui risiedere in base alle proprie esigenze, a partire da quelle economiche a quelle spirituali. Il diritto alla libertà di movimento richiama direttamente anche la situazione e i problemi delle popolazioni nomadi.

 

Nella Storia

Gli spostamenti di popolazioni tra luoghi geografici diversi tra loro sono definiti migrazioni. Queste, determinate da pressioni demografiche ed economiche, sono rintracciatili fin dalle epoche più remote della storia dell’umanità. Esse potevano essere motivate dalla ricerca di terre più ospitali o dalla spinta di altri popoli in espansione o in fuga, o dalla struttura socio-economica che prevedeva e prevede tuttora, una mobilità continua, come nel caso dei nomadi Euro-asiatici o dei pastori itineranti africani. Questi movimenti determinarono l’incontro tra gruppi etnici differenti, il che ha rappresentato uno dei fattori fondamentali per l’evoluzione dell’umanità e per il formarsi delle particolari caratteristiche culturali, linguistiche, religiose e politiche. La spinta verso il movimento, fa parte della natura umana ed è stata alla base del costituirsi delle varie civiltà. Con le scoperte geografiche, la ricerca di nuove terre è diventata parte integrante della politica dei nascenti Stati nazionali europei. Gli Europei si spinsero nelle terre d’oltremare in Africa, nelle Americhe e in alcuni Paesi asiatici, per impossessarsi di fonti di ricchezza, di materie prime o per l’impianto di stazioni commerciali. Questo processo, iniziato intorno al XV secolo, continua anche oggi sotto forme diverse e spesso con la complicità di meccanismi internazionali. Dal tempo della tratta degli schiavi, a quello della colonizzazione, fino ai rapporti economici che oggi legano l’Occidente a questi Paesi, il Sud del mondo è stato considerato un enorme serbatoio di ricchezze, sfruttato senza criterio. Con l’industrializzazione, i Paesi Occidentali modificarono la loro struttura sociale ed economica e concentrarono le proprie energie sulla crescita economica interna utilizzando le materie prime provenienti dai Paesi del Terzo Mondo. Nei Paesi colonizzati, i processi descritti determinarono oltre all’ovvio depauperamento delle risorse, uno stravolgimento sociale, culturale e politico, con popolazioni costrette ai limiti della sopravvivenza, e obbligate a confrontarsi quotidianamente con il sistema socio-economico occidentale. È in questo modo che nasce il tipo di migrazione contemporaneo, completamente diverso da quelli precedenti alla colonizzazione.
Non si deve dimenticare che al fine del XIX secolo, anche dai Paesi europei partirono dei flussi migratori. Da tutta l’Europa, ondate di popolazione si spostarono verso il Nord e il Sud America, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Attualmente l’America del Nord rappresenta una testimonianza delle migrazioni attraverso la sua eterogeneità etnica.
In questo secolo XX, il fenomeno migratorio continua ad essere rilevante per moltissimi Paesi.
Nel caso specifico dell’Italia, le emigrazioni cominciarono addirittura dal Risorgimento. Tra le due guerre mondiali esse aumentarono: dal nord e dal sud d’Italia cominciarono a dirigersi verso l’America del Nord, il Brasile, il Venezuela e l’Argentina. Negli anni ’50, durante il boom economico, l’emigrazione italiana si diresse soprattutto verso il Sud America e verso il nord Europa, e cominciò ad arrestarsi solo negli anni ’70. A causa delle migrazioni italiane, oggi i cittadini di origine italiana che vivono in altri Paesi sono oltre 50 milioni, mentre quelli che godono della doppia cittadinanza si aggirano intorno ai 2 milioni.

 

Oggi

I flussi di popolazione che dai paesi non Occidentali si dirigono verso il Nord del mondo hanno cominciato ad assumere una certa consistenza dopo gli anni ’60.
In questo periodo tali Paesi avevano ottenuto l’indipendenza governativa, ma avevano ormai anche assorbito il modello di vita occidentale e si erano piegati alle relative richieste economiche. L’imposizione di tasse, la monetarizzazione, le nuove leggi di mercato e il depauperamento delle risorse provocarono il bisogno di cercare in Occidente, ciò che l’Occidente stesso aveva promesso.
Il legame politico ed economico che si era creato tra i paesi colonizzatori e quelli colonizzati orientò le prime immigrazioni. Inizialmente furono proprio i Paesi europei a stimolarle, perché bisognosi di mano d’opera non specializzata da impiegare nella crescita delle industrie, molto forte in quel periodo. Ad esempio la Francia negli anni ’60 aveva istituito una serie di facilitazioni che permettevano ai cittadini delle sue ex-colonie di accedere facilmente al suo interno. Con la crisi economica degli anni ’70, gli stessi Paesi che avevano agevolato l’entrata dei lavoratori esteri, realizzarono delle politiche tese ad ostacolarla.
I popoli del Sud del mondo, nella maggioranza ex colonie occidentali, vivono una condizione di povertà e di sfruttamento derivante sia dalla organizzazione coloniale che da quella post-coloniale ed hanno bisogno di riappropriarsi della gestione dei loro territori e delle loro risorse nel rispetto della loro cultura e identità. Tutto questo viene disatteso dal fatto che le condizioni di difficoltà in cui versano, li obbligano a lasciare le loro terre e ad emigrare, ricorrendo ad un Occidente che continua a condizionare le loro politiche e il loro diritto all’autodeterminazione, anche con il grosso problema del debito estero. I movimenti migratori che si sono avuti, creano reazioni difensive da parte dei paesi Occidentali, che li vivono come invasioni. Mai come oggi è importante, quindi, per ristabilire equilibri geo-politici frantumati, una equa gestione delle risorse. Le politiche di chiusura adottate dai paesi Occidentali costituiscono, invece, la mancata risposta alle necessità e ai bisogni della maggior parte della popolazione mondiale.
Per quanto riguarda l’Italia, nello stesso periodo, da Paese di origine di migranti, diventa Paese di accoglienza. Cominciano i rientri dall’estero dei vecchi emigrati e con la chiusura delle frontiere da parte di altri Paesi europei, l’Italia diventa meta privilegiata di unità di popolazione provenienti dall’Africa e dall’Asia. È solo negli anni ’80 che in Italia si comincia a percepire la realtà dell’immigrazione, sia come fenomeno da controllare, che da organizzare tutelandolo.
La prima legge, tesa a rendere legali gli immigrati presenti in Italia e a garantire uguali diritti lavorativi, sanitari e sociali ai lavoratori stranieri, è la Legge n. 943 del 1986.
Negli anni ’80, la Comunità Europea se da un lato ha favorito l’apertura delle frontiere tra i Paesi membri, dall’altro ha sentito la necessità di adottare soluzioni precise per arginare i flussi migratori, ossia soluzioni tendenti alla chiusura verso l’esterno. Per questo si sono costituiti gruppi di lavoro ad hoc e sono state elaborate soluzioni politiche volte a rispettare gli equilibri esistenti tra i Paesi dell’attuale Unione Europea. Una di queste soluzioni è il Trattato di Schengen, del 1985, tra Francia, Germania Occidentale, Belgio, Lussemburgo ed Olanda, dove si stabilisce l’armonizzazione dei requisiti per il visto, una sola opportunità per i richiedenti asilo e lo scambio di informazioni tra gli Stati. Con il Trattato, nessuna attenzione è stata prestata ai bisogni ed alle necessità dei rifugiati e ciò è incompatibile con la Convenzione relativa allo status di rifugiati del 1951. Nata come esperimento, questa soluzione ha trovato assensi in altri Paesi della Comunità.
Sono molti, se non tutti i Paesi che dall’arrivo e dall’incontro di popolazioni diverse, hanno tratto la linfa per la loro crescita culturale ed economica. Un caso interessante è quello dell’Australia.
L’Australia (16 milioni di abitanti) dal 1945 ad oggi ha accolto 4,5 milioni di immigrati, provenienti da 140 paesi diversi. Questi afflussi hanno ovviamente provocato degli attriti e dei cambiamenti all’interno della società australiana, ma questo continente è comunque rimasto meta di molti emigranti e rifugiati.
Molti vi arrivavano infatti perché perseguitati per motivi religiosi, come i Luterani, altri erano spinti da motivazioni economiche, e sfuggivano alla povertà, alla fame, alla disoccupazione, come gli irlandesi e gli scozzesi. Vi arrivarono afgani, libanesi, polacchi, slesi, sudamericani, italiani, cinesi, scandinavi, ebrei.
Come altri paesi, anche l’Australia adottò delle misure restrittive. Nel 1901 venne avviata quella che è stata definita la politica della “Australia bianca”, che favoriva soprattutto l’entrata nel Paese di migranti anglosassoni a sfavore di tutti gli altri.
Le popolazioni aborigene, padrone da tempo di quelle terre, non beneficiarono dell’incontro con gli occidentali e furono costrette a ritirarsi sempre più all’interno del Paese, diventando una sorta di rifugiati in casa propria.
Tra le due guerre mondiali, in questo Paese furono perpetrate vessazioni ai danni di immigrati tedeschi, italiani e giapponesi.
Dopo la seconda guerra mondiale, anche l’Australia, per ragioni economiche, principalmente per bisogno di mano d’opera, accettò di accogliere milioni di persone provenienti dall’Europa. Queste venivano impiegate in progetti idroelettrici in Tasmania e nelle Montagne Nevose. Negli anni ’50 il bisogno di mano d’opera da parte di questo paese fu talmente grande che, sebbene l’Australia privilegiasse l’immigrazione anglosassone, fu costretta ad accettare anche lavoratori provenienti dal sud Europa, come Greci, Italiani e Jugoslavi.
Negli anni ’70 e ’80 la politica dell’ “Australia Bianca” venne abbandonata e questo Paese divenne luogo di approdo di molti rifugiati provenienti dall’Europa dell’Est, dal Libano, da Timor, dall’Africa e altri ancora; negli anni ’80 i boat people e altri rifugiati del Vietnam, di Timor, della Cambogia e del Laos, arrivarono sul Continente e insieme a tutti gli altri hanno contribuito e contribuiscono in questo paese all’avventura del genere umano che è quella di conoscersi e di crescere insieme.

da “Rifugiati”, Anno I, n� 1 nov. ’89 – gen. ’90

Nella Costituzione Italiana

Gli articoli 16 – 35 della Costituzione Italiana si riferiscono specificamente alla libertà di movimento dei cittadini italiani, entro e fuori i confini nazionali. Sono garantiti tutti gli spostamenti determinati da qualsiasi ragione, a meno che queste non siano contrarie a obblighi di legge, quali ad esempio lo svolgimento della leva militare o obblighi incompiuti con la giustizia.
All’interno dell’art. 35 è prevista anche la tutela del lavoratore italiano all’estero, ma non quella del lavoratore estero in Italia.

lalegge

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IL DIRITTO DI ASILO POLITICO

 

  1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
  2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

 

Nella storia, la definizione dei confini politici mondiali è il risultato di lotte, di guerre, di strategie e accordi politici. Sia i popoli organizzati in Stati che quelli che non presentano questa configurazione politica, vivono in un territorio delimitato. I confini degli Stati subiscono cambiamenti tali da dover ridisegnare l’atlante geografico che era usato, ad esempio, fino al 1989. Si pensi alla frantumazione della ex-URSS in piccoli Stati nazionali, oppure alla divisione della ex-Cecoslovacchia o della ex-Jugoslavia. In questi mutamenti geo-politici si colloca la persona.
“Tutti coloro che in seguito ad una aggressione, ad una invasione, ad una dominazione straniera o ad avvenimenti che turbano gravemente l’ordine pubblico del paese di cui hanno la nazionalità, hanno il diritto di cercare la salvezza in un altro luogo…” dalla Convenzione dell’Organizzazione per l’Unità Africana del 10 settembre 1969.
Gli ostacoli che si trovano nell’applicazione della Dichiarazione Universale nascono da delicati equilibri politici ed economici internazionali e dal timore, di ogni singolo Paese, delle possibili ripercussioni che possono interessarlo.
La Convenzione relativa allo status di rifugiati adottata dalle Nazioni Unite nel 1951 ha raccolto l’esperienza maturata dall’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati (IRO), negli anni precedenti. In base ai documenti prodotti è possibile attribuire lo status di rifugiato a tutte quelle persone che avendo ragione di temere per la propria razza, la propria religione, la propria nazionalità, la propria appartenenza ad una determinata entità sociale, o per le proprie opinioni politiche, si trovano fuori dal Paese di origine e non possono o non vogliono, per paura chiedere protezione al proprio paese.
Dal momento che la Convenzione faceva riferimento alle situazioni precedenti la sua emanazione, il Protocollo del 1967 stabilisce una estensione della stessa Convenzione alle figure dei nuovi rifugiati, cioè quelli che assumono lo status di rifugiati dopo il 1951.
Attualmente, si parla anche di rifugiati ambientali, cioè persone costrette ad abbandonare il proprio Paese a causa di disastri o fenomeni ambientali che impediscono lo svolgimento di una vita sana.
Accanto alla figura del rifugiato si deve collocare l’istituzione dell’asilo, concepita in modo da poter aderire alle innumerevoli situazioni. Per chiedere asilo è necessario dimostrare la fondatezza dei propri timori di essere perseguitati, affinché non vi siano timori del tutto soggettivi o altre ragioni private. Il Paese di accoglienza, tramite gli incaricati ad istruire la pratica, deve giudicare la coerenza della vicenda personale descritta, la situazione del Paese di provenienza, il comportamento delle sue autorità, della polizia, della sua amministrazione giudiziaria. È possibile constatare che le motivazioni di opposizione di un Paese all’asilo possono essere diversificate ed è fondamentale il ruolo dell’ONU e delle Organizzazioni nate per la tutela dei rifugiati.

Nella Storia

L’essere umano ha testimonianza di persecuzioni in ogni parte del mondo fin dai tempi più antichi. Il desiderio di conquista, di nuove ricchezze o di potere politico, l’insofferenza verso le diversità o l’intolleranza religiosa hanno determinato un continuo movimento di piccoli gruppi o intere popolazioni in cerca di pace o di un luogo sicuro.
In tempi antichi, popolazioni come Ebrei, Greci, Egiziani, Romani trovavano rifugio in luoghi sacri, santuari che ancora oggi rappresentano per le popolazioni primitive, luoghi inviolabili. Il rifugiarsi in questi luoghi rivela la concezione primitiva che la santità di un luogo o di un oggetto sacro si potesse comunicare per contatto fisico, per cui la persona che lo stabiliva, diventava per questo inviolabile. Quest’idea si è stabilizzata con il tempo anche come esigenza di difesa nei confronti della vendetta di sangue, attuata nel mondo antico; la Bibbia lo testimonia nell’Esodo XXI, 12-14, nei Re XXI, 1 e nel Deuteronomio XIX, 6.
Tuttora nel mondo mussulmano, le moschee e le tombe dei santi servono da protezione per l’uccisore per sfuggire alla vendetta di sangue.
Nel mondo greco, tuttavia, con lo svilupparsi dei commerci, si sentì la necessità di tutelare in qualche modo le persone esposte ai rischi di rappresaglia per motivi politici, nel caso che un mercante o un ambasciatore, per esempio, per realizzare le proprie attività, avesse relazioni con città ostili. In questo caso, alla persona veniva concessa la asilia ossia gli veniva riconosciuta, dal Paese ospitante, una condizione di tutela per il transito e per la residenza. L’asilia veniva attribuita, però, solo in base a determinati requisiti e meriti personali.
La necessità di sopravvivere e di trovare asilo in determinate condizioni si trova più evidente nella storia di ogni conquista, nella storia della Grecia, dell’Impero Romano, nella nascita del Cristianesimo o nelle peregrinazioni del popolo ebreo. L’esodo del popolo d’Israele è la testimonianza di una marcia verso una meta che si è prolungata fino ai nostri giorni.
Per il passato, a livello di singole persone, si potrebbero citare molti esempi: si pensi ad Alcibiade, vissuto dal 450 al 404 a.C., divenuto un eroe della democrazia ateniese, perché costretto, dai suoi avversari, due volte all’esilio, ed in ultimo, da essi fatto assassinare.
L’asilo cristiano che perdurò per tutto il Medioevo, si collega al potere di intercessione riconosciuto ai Vescovi e aveva valenza sia contro la vendetta, che contro la schiavitù. In quest’ultimo caso, se uno schiavo chiedeva asilo presso un monastero o una chiesa, il padrone non ne poteva chiedere la restituzione se non concedendo il perdono.

 

Nella Letteratura

La tragedia greca testimonia con ricchezza di particolari l’abitudine di rifugiarsi presso un santuario, un tempio, o anche semplicemente un altare, per trovare asilo dalle persecuzioni. Ne parla Eschilo nelle “Supplici”, donne appunto supplici di grazia presso un altare. Questo era considerato inviolabile perfino contro una giusta persecuzione divina, come viene descritto, sempre da Eschilo, nelle “Eumenidi”. In questa tragedia, Oreste infatti, inseguito dalle Erinni – figure divine – riuscì a placarle solo abbracciando l’altare.
Tucidite, Senofonte, Plutarco testimoniano nelle loro opere, del valore di diversi protagonisti del tempo perseguitati per le loro idee o per le loro ambizioni.
Questi e altri esempi sottolineano come la tutela di persone perseguitate fosse completo appannaggio delle divinità e non degli uomini, presso i quali anzi, non vi era alcuna garanzia di trovare un rifugio sicuro.
Questo istituto di sacralità dell’asilo a cui si contrapponeva purtroppo, a volte, la fallace accoglienza degli uomini, perdurò a lungo, fino al XVIII sec.
Alessandro Manzoni, nei “Promessi Sposi” rievoca questa usanza nella vicenda di Fra Cristoforo, mentre la famosa poesia dedicata a Corradino di Svevia narra il tradimento e l’inganno da parte di chi doveva offrire rifugio.
Nel Medioevo divennero luoghi di asilo anche il castello e le terre del feudatario, ciò a conferma che la tutela giuridica era una prerogativa delle due grandi istituzioni feudali: il papato e il feudo.
Per questo periodo storico, occorre ricordare Dante che, esiliato dalla sua città per motivi politici, trovò asilo presso Can Grande della Scala, un potente dell’epoca, esponente appunto di quella categoria di persone che per il loro censo o per il loro potere potevano accordare protezione. Con il Concilio Tridentino, il diritto di asilo divenne una istituzione divina e solo con l’affermarsi degli Stati nazionali, questi cercarono di limitare il ricorso all’asilo religioso per poter svolgere le loro azioni di polizia.
In epoca moderna, il sostenere nuove filosofie in contrasto con le teorie assolutistiche degli Stati fu causa di numerosi esili tra cui quelli di Tommaso Campanella, e John Locke.
Nelle pagine di storia più recenti si possono ricordare, per l’Italia, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi che, esiliati dal proprio Paese, non si chiusero nel rancore e nell’amarezza, ma continuarono a combattere a favore di tutti i popoli per un ideale di libertà.
Spesso, alla condizione di richiedente asilo si accompagna una violazione dei diritti di libertà. In epoca più vicina, i totalitarismi e le guerre sono fonte, infatti, di sofferti esili, basti citare: A. Einstein, E. Fermi, i fratelli Rosselli, S. Pertini, R. Nureyev, R. Menchù e altri.
In realtà, nella storia è importante definire due tipologie di persecuzione: quella volta ad intere popolazioni o categorie di uomini e quella prettamente legata a grandi figure che hanno determinato cambiamenti politici o culturali all’interno di ogni Paese.
Comunque bisognava attendere il XIX secolo perché il concetto di asilo divenisse oggetto di norme giuridiche di precisa tutela e questo coincise con una laicizzazione del concetto stesso e con l’abbandono dell’istituto dell’asilo religioso, anche se nel diritto canonico, esso fu riconfermato nel 1917. Solo da allora si può cominciare a parlare di un vero e proprio diritto d’asilo. Dopo la seconda guerra mondiale si è cercato di consolidare il diritto d’asilo come diritto fondamentale della persona e tale indirizzo di pensiero ha portato sia alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sia alle convenzioni successive in materia.

 

Oggi

Negli ultimi anni, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (ACNUR), ha manifestato grande preoccupazione per gli spostamenti di rifugiati da un Paese all’altro, da un continente all’altro, poiché il fenomeno ha assunto dimensioni tali da allarmare i governi, che non riescono a pianificare o a prevenire le varie fasi o reazioni sociali. Solo il 3% dei rifugiati nel mondo cerca e trova una soluzione ai propri problemi nei Paesi industrializzati, ma i profughi nel mondo, oggi sono quasi 50 milioni, concentrati soprattutto in Somalia, Sudan, Zaire, Pakistan, Sud-Est Asiatico, America Latina. Il quadro risulta impressionante: situazioni che hanno origine nel passato, spingono verso destinazioni lontane ad affrontare l’ignoto comunque inevitabile, forse risolutivo, come unica speranza.
Spesso, nel Terzo Mondo, i conflitti tra i gruppi dominanti autoritari e i movimenti di opposizione tendono a lacerare questi ultimi e a colpire le popolazioni che li sostengono, costringendole all’esodo. Anche un’ideologia imposta costringe un popolo che la rifiuta a rifugiarsi lontano e spesso, l’esodo colpisce i ceti sociali più deboli. Si pensi ad esempio alle situazioni vissute in alcuni paesi dell’America Centrale: Nicaragua, Salvador, Guatemala. Anche in Africa, le attuali difficoltà socio-economiche ed etnico-politiche di alcuni Paesi provocano migliaia di rifugiati, circa la metà di quelli stimati nel mondo.
Va considerato, inoltre, che l’affluenza di popoli diversi in un territorio crea l’esigenza di individuare nuovi equilibri, di modificare la distribuzione delle risorse esistenti, di gestire i possibili conflitti socio-economici, politico-culturali, dentro e fuori il Paese stesso.
All’interno di un Paese, le minoranze sono una presenza viva, perché portatori di esigenze e di diritti e pertanto da considerare nella loro globalità. Si dovrà accettare la sfida di pensare ad un governo per una società nuova comprendente il pluralismo culturale ed etnico e la convivenza delle diversità.

Si confrontino le schede degli artt. 13 e 15.

 

Nella Costituzione Italiana

L’art. 14 della Dichiarazione Universale trova nella Costituzione Italiana un riferimento specifico nell’art. 10 quando riconosce allo straniero il diritto di asilo. Quest’ultimo, però, viene concesso solo quando, nel suo paese, allo straniero è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana. L’articolo stabilisce inoltre che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Anche la Costituzione non ammette l’estradizione dello straniero per ragioni politiche.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA CITTADINANZA

 

  1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
  2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

 

La cittadinanza è un diritto che può essere originario o acquisito. Nel primo caso, si possiede per filiazione (ius sanguinis); nel secondo, per effetto del luogo di nascita (ius loci).
Essere cittadino consiste nel godere di una serie di diritti comuni a tutti e nel dovere di esercitare la cittadinanza stessa. Il diritto alla cittadinanza è in sostanza il diritto di sentirsi aggregato ad una comune radice sociale e quindi di potere partecipare liberamente alla vita dello Stato. Questo concetto include in sé il diritto alla libertà, alla giustizia equa, alla libertà di parola, alla libera circolazione nel territorio e al libero espatrio, a un’equa distribuzione delle ricchezze e ad esercitare i diritti politici per partecipare alla organizzazione dello Stato.
La cittadinanza può essere perduta, riacquistata, cambiata, in circostanze che possono essere volontarie, per rinuncia espressa, automatiche per mutamento di cittadinanza del coniuge, del genitore, per cessione di parte del territorio nazionale. Vi sono anche circostanze involontarie, come l’apolidia, cioè la mancanza di cittadinanza.

 

Nella Storia

È emerso sin dagli albori della civiltà, il desiderio di appartenenza a un gruppo e quello di riconoscersi tutti uguali al suo interno.
Nella civiltà greca, tutta la vita pubblica si svolgeva all’interno della città, alla quale accedevano solo gli aventi diritto, mentre gli stranieri, ossia tutti quelli che non appartenevano alla città, anche se molto vicini territorialmente e con uguali tradizioni ed origini, non godevano di alcun diritto.
Il civis romanus godeva di un particolare stato di diritto, riassumibile nella possibilità di partecipazione alla vita politica attiva e di potere essere rappresentato da esponenti liberamente eletti. La popolazione dell’impero, invece, doveva solo subire la volontà della città di Roma e dei suoi rappresentanti. Essere, quindi, cittadino romano voleva dire appartenere a una sorta di élite sociale preclusa, salvo rari casi, come per riconoscenza riguardo a grandi atti eroici o affermata amicizia e fedeltà a Roma nei confronti di tutti quelli che non erano nati nella città.
Nel Medioevo, con la trasformazione della realtà territoriale da cittadina a latifondiaria, venne meno il concetto di cittadinanza. L’assetto sociale, basato prima sul rapporto di appartenenza a una comunità, la città e l’urbs, venne sostituito da un rapporto interpersonale di appartenenza e subordinazione al signore feudale.
La situazione cambiò nel periodo dei Comuni, nel quale la città divenne di nuovo il fulcro dell’organizzazione politico-economica del territorio.
Innovazione di questo periodo fu il fatto che la cittadinanza si acquisiva per merito e non più per classe o per nascita. Furono, infatti, le varie artes, i mestieri e l’eccellenza che si raggiungeva in essi, a garantire l’accesso alla cittadinanza, in base a criteri di utilità e di valore. Questo consentì una grande mobilità sociale, anche se poi la democrazia comunale non fu egualitaria e totale per tutti.
Dal ‘400 al ‘700, si formarono i grandi Stati nazionali, pur non manifestandosi ancora un sentimento nazionale. Bisogna sottolineare come, anche in questa fase, lo Stato fosse considerato ancora una grande città, la città-stato.
La città rimase infatti lo snodo fondamentale per la burocrazia statale, alla quale si aggiunse, come cemento sociale, la fedeltà al sovrano, una sorta di recupero mitigato del concetto di subordinazione interpersonale del feudalesimo. Appartenenza territoriale dunque, e subordinazione interpersonale, furono i due capisaldi delle nascenti nazioni.
A sconvolgere questo sistema di cose e a far nascere il moderno concetto di cittadinanza, furono due eventi importanti: l’opera e il pensiero di J. J. Rousseau e la Rivoluzione Francese. Nel 1762, Rousseau scrisse il Contrat Social, in cui, si affermava il concetto di sovranità popolare. La volontà generale, che non è la somma di tanti interessi individuali, ma l’espressione di un gruppo di associati, che forma un corpo politico, deve esercitarsi direttamente. La sovranità popolare, che esprime questa volontà generale, è il modo con cui i cittadini possono operare un controllo diretto sulla gestione dello Stato, abbandonando il loro ruolo passivo e marginale. Il pensiero di Rousseau ha ispirato le moderne teorie democratiche e le rivoluzioni degli ultimi anni del ‘700.
La Rivoluzione Francese ha sancito, insieme a quella Americana, l’uguaglianza dei diritti, fra tutti i citoyen, senza discriminazioni di sorta, senza privilegi per i ricchi o per i nobili.
Si è trattato dell’acquisizione di una coscienza partecipativa, che caratterizza ancora oggi la cittadinanza attiva e l’uguaglianza fra le classi sociali.

 

Oggi

La cittadinanza è un diritto acquisito e non se ne può prescindere. Gli organismi internazionali hanno fatto molto, ma allo stato attuale, molte persone rimangono ancora prive della cittadinanza, perché non viene acquisita in modo del tutto automatico. La cittadinanza è divenuta una questione fondamentale, in riferimento soprattutto ai fenomeni migratori.
Nella maggioranza degli Stati europei ha prevalso, nel corso della storia, il principio dello ius sanguinis, mentre, negli Stati americani, predomina lo ius loci. Questa distinzione è importante, perché è stata e rimane alla base delle varie politiche nei confronti degli stranieri. Per fare un esempio, in Francia, la tutela dei nati su territorio francese era forte e consolidata, tanto da divenire quasi automatica; oggi invece è messa in discussione. In Germania, al contrario, lo ius loci non è considerato.
Per i migranti, accedere alla cittadinanza può essere a volte molto difficile. L’acquisizione di questo diritto è infatti legata al possesso di una residenza continuativa e la residenza è, a sua volta, legata a una occupazione lavorativa. È chiaro, pertanto, che senza cittadinanza gli emigranti sono considerati degli ospiti, che non hanno accesso alla pienezza dei diritti della comunità ospitante: in pratica, sono delle persone emarginate.
Le migrazioni sono un fenomeno globale, che riguarda tutti i Paesi; è quindi necessario che l’accesso alla cittadinanza venga regolato da norme internazionali valide per tutti, per evitare che la gestione di questo diritto divenga uno strumento di esclusione in mano ai vari Stati.
L’articolo che si sta esaminando sancisce questo diritto, purtroppo, però, sono stati pochi gli sforzi per armonizzare le singole legislazioni in materia con l’esigenza di un diritto alla cittadinanza per tutti.
Nel 1954, le Nazioni Unite hanno adottato una Convenzione relativa allo status degli apolidi che, entrata in vigore nel ’69, stabilisce i livelli minimi di trattamento per le persone prive di nazionalità. Allo scopo di ridurre futuri casi di apolidia, l’ONU ha sancito nel 1961 una Convenzione con la quale si vogliono aiutare le persone a acquisire una cittadinanza alla nascita e a limitare le circostanze per cui la si possa perdere, senza averne prima acquisita un’altra.
A livello europeo, alcuni Stati hanno parlato dell’estensione del diritto di cittadinanza come deterrente per la xenofobia.
Con la formazione, infatti, di entità sovranazionali, quali l’Unione Europea, la cittadinanza diviene sempre più espressione di un “interesse comune“, di una “comunanza di scopi“, più che una mera appartenenza territoriale.
È opportuno prendere coscienza di questa nuova dimensione, perché, sempre in Europa, hanno prevalso le indicazioni restrittive del Trattato di Schengen del 1985. In questo accordo, i problemi dell’immigrazione sono stati trattati unicamente sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblico, per cui si prevede la creazione di una polizia internazionale, specializzata nei controlli doganali.

 

Nella Costituzione Italiana

Il diritto enunciato trova corrispondente tutela all’art. 22 della Costituzione Italiana: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome” L’articolo considera specificamente diversi caratteri che fanno capo alla persona e di cui questa non può essere privata. Il primo aspetto tutelato riguarda la capacità giuridica che, nel diritto pubblico, indica la capacità che il soggetto ha di essere titolare di diritti e doveri. Questa titolarità si riferisce a ogni individuo che la acquisisce automaticamente con la nascita. In concreto, solo in quanto esistente, la persona umana è già destinataria di precisi obblighi, che è tenuta a osservare, e può godere di diritti connaturati con il suo essere individuo. Conseguentemente, privare la persona della capacità giuridica, significa negarne la personalità e ridurla ad oggetto.
Il secondo aspetto che viene tutelato è la cittadinanza, che consiste nel rapporto giuridico che lega il soggetto all’ordinamento a cui appartiene e che lo rende “popolo”.
Il diritto al nome, infine, il terzo aspetto, è il diritto di ciascuno a possedere una propria identità giuridica. Questo viene considerato, nella Dichiarazione dei diritti del Fanciullo del 1959, dove si enuncia il diritto a avere un nome e una nazionalità fin dalla nascita.
È importante sottolineare come la garanzia costituzionale di cui si sta trattando, si riferisca a tutti i soggetti dell’ordinamento. Questo avviene a due livelli: al primo livello, la tutela disposta comporta che stranieri, cittadini di un altro Stato e apolidi, individui privi dello status di cittadino, non possano essere privati della capacità giuridica o del nome da parte dello Stato italiano.
La fattispecie considerata è, però, ancora più ampia. Il secondo livello di tutela disposto, infatti, stabilisce che lo Stato italiano non può riconoscere neppure l’efficacia, per il proprio ordinamento, di provvedimenti analoghi adottati, nei confronti di uno straniero, dallo Stato di cui questi è cittadino. Se lo Stato di origine, ad esempio, priva della cittadinanza un proprio soggetto, lo Stato italiano non può comunque riconoscere la validità di questo atto.
Infine, è necessario interpretare correttamente l’espressione “per motivi politici”. La norma risente della reazione alle pratiche repressive attuate nell’immediato passato: la Assemblea Costituente si riunisce dopo solo pochi anni dalla caduta del fascismo. Come conseguenza, l’enunciato risulta ambiguo, poiché sembra ammettere, a contrariis, la privazione della capacità per motivi non politici. Il livello di civiltà giuridica raggiunto in Italia, come pure i dibattiti svoltosi in Assemblea Costituente, confermano, comunque, l’opinione che il riferimento ai motivi politici sia da intendere come rafforzativo di un generale divieto di privare qualsiasi persona del riconoscimento della sua capacità giuridica. In altre parole, ogni persona deve necessariamente essere considerata nella sua globalità, anche e soprattutto, come cittadino.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA FAMIGLIA

 

  1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento.
  2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
  3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

 

L’articolo afferma il diritto di ogni persona, donna o uomo, ad intraprendere liberamente una vita matrimoniale e familiare, senza ostacoli di alcun tipo, quali ad esempio quelli in esso indicati. Vuole anche eliminare vincoli e limitazioni diffusi in passato e che, di fatto, tuttora sussistono per tradizione e consuetudine in diversi Paesi. Esplicita come unico divieto quello dell’età adatta cioè idonea per decidere liberamente e con maturità; fa riferimento ad altri divieti di natura tecnica o legale, motivati da ragioni plausibili e fissati dalle normative nazionali dei singoli Stati.
Evidenzia la uguale dignità e la parità di diritti per i futuri coniugi, responsabili giuridicamente nella fase precedente il matrimonio, durante lo stesso ed, eventualmente, all’atto del suo scioglimento. Questa parità, giuridicamente affermata e raggiunta nel tempo, tende a superare i modelli del patriarcato e del matriarcato, succedutisi nella conduzione della vita familiare.
Nel secondo comma dell’articolo, viene messo in rilievo il libero arbitrio della persona, nella scelta della vita matrimoniale. L’affermazione, frutto della tradizione cristiana prima e poi illuministica, non ammette la possibilità di contrarre il matrimonio con un assenso parziale tanto da considerarlo nullo. L’articolo, definendo la famiglia come “nucleo basilare della società civile”, motiva le società e gli Stati a offrirle una protezione integrale e continuativa. Ispira così numerose Costituzioni nazionali.

 

Nella Storia

L’origine, la struttura e l’organizzazione della famiglia, risalgono all’inizio della stessa avventura umana: nasce, infatti, insieme alla persona. Intesa come unità fondamentale dell’organizzazione sociale, la famiglia ha subito delle modifiche strutturali nel corso dei secoli che rispecchiano l’organizzazione stessa delle comunità di appartenenza assumendo connotazioni differenti secondo i modelli culturali, l’esercizio dell’autorità ed il ruolo ricoperto dai suoi membri.

 

La Famiglia nell’Età Antica e Medievale

Presso gli antichi popoli di stirpe semitica, la famiglia era di tipo patriarcale, nel diritto babilonese e assiro, il padre aveva un’assoluta autorità su tutti i suoi membri; accanto alla moglie legittima, se sterile, era consentito avere una seconda moglie. I rapporti familiari erano regolati da norme che prevedevano severe punizioni e stabilivano una distinzione tra figli legittimi; ora disciplinato, inoltre, l’istituto dell’adozione e consentito il divorzio.
Malgrado la predicazione dei Profeti, la monogamia non fu mai giuridicamente accettata dagli Ebrei, sebbene la sposa legittima avesse sempre una posizione di netta preminenza. Gli Ebrei conobbero l’uso dell’adozione e non distinsero tra figli avuti da moglie legittima e da concubine; l’incesto veniva condannato e solo chi nasceva da tale connubio veniva considerato bastardo.
Nell’Egitto faraonico, la famiglia ebbe una struttura poligamica e fu fondata sa una notevole libertà di vincoli. I figli erano curati ed educati con affetto senza una sostanziale distinzione giuridica. Nella famiglia dei Faraoni si avevano frequentemente matrimoni tra fratello e sorella.
Presso gli antichi Greci, la famiglia, così come si presentava ad Atene, era soprattutto unita da un culto comune, da doveri reciproci tra i membri, doveri rispondenti ad un’indole sacra. Il padre era il capo assoluto della famiglia, la rappresentava e ne rispondeva davanti alla città, denunciava le variazioni che avvenivano al suo interno. La città interveniva nella vita della famiglia solo nel caso di accusa provata contro il padre.
Al capo della famiglia succedeva sempre il figlio; se questi era minore, sovveniva l’istituto della tutela; nel caso di sole figlie, esisteva l’epiclerato. La donna, nell’antica Grecia viveva differenti condizioni a seconda del periodo storico: nell’età eroica, era tenuta in grande considerazione, in quella classica viveva appartata, mentre nell’età ellenistica iniziava a godere di maggiore libertà.
I figli maschi erano, in genere, assolutamente liberi, si occupavano degli affari e della politica senza curarsi della educazione dei figli. I figli maschi venivano iscritti dal padre nel registro del demo diventando così cittadini ma soggetti all’autorità del padre fino al matrimonio. Questi poteva anche bandirli e diseredarli. Nel caso di una figlia femmina, il padre decideva per il suo matrimonio con una promessa solenne allo sposo.
Nel diritto romano, la famiglia costituiva il gruppo elementare e essenziale della società organizzata con una sua funzione politica evidente che si è andata affievolendo via via che il potere della res publica prendeva il sopravvento.
In epoca arcaica, il principale compito della famiglia era quello di mantenere l’ordine e la convivenza sociale attraverso la procreazione, l’educazione della prole e l’autorità sovrana del pater familias che godeva di poteri vastissimi su tutti i membri del nucleo e sui suoi beni, compresi gli schiavi, che erano parte della famiglia stessa. Il processo evolutivo della res publica può dirsi accompagnato dal progressivo ridursi della sovranità del padre. I mutamenti succedutisi nel tempo avevano condotto, in epoca giustinianea ad una configurazione della famiglia con una struttura analoga a quella attuale: si stabilì un nuovo sistema fondato sulla distinzione dei patrimoni e sulla tutela domestica.
All’interno della società medioevale, l’istituto della famiglia subì l’influenza di tre importanti elementi costitutivi della civiltà dell’epoca: il substrato romano, l’apporto germanico e l’influenza cristiana. La legislazione ecclesiastica ne permeò la struttura con la propria concezione sacramentale stabilendo principi nuovi quale ad esempio l’indissolubilità del matrimonio.
Fino all’epoca moderna, perdurarono insieme, altri criteri lontani dal magistero della Chiesa, che comportavano una disparità di trattamento tra i figli a seconda del sesso o della primogenitura, si pensi ad esempio all’istituto del maggiorascato.
Le nuove idee proprie della Rivoluzione Francese hanno permesso l’elaborazione di un’originale concezione laica della famiglia come nucleo naturale e razionale, che passò integralmente nella codificazione napoleonica e da questa in tutte le moderne legislazioni.
Con la Rivoluzione Industriale la famiglia ha risentito di profonde trasformazioni relativamente al modello tradizionale a causa del fenomeno dell’urbanizzazione che ha prodotto spostamenti di famiglie contadine, le quali, una volta sradicate dai loro gruppi, non sono più riuscite a mantenere rapporti durevoli con i parenti. Uomini, donne e bambini venivano utilizzati come forza-lavoro, senza alcuna tutela né riguardo per la loro educazione.
Il modello di famiglia prevalente nella città era quello borghese, collocato simultaneamente in due spazi: quello domestico e quello pubblico.
Fino ad allora, la famiglia era stata in grado di fornirsi autonomamente dei servizi che le erano necessari. Poi, doveva essere la società ad offrirglieli. Nascita, educazione, malattia, morte non erano più vissute all’interno del nucleo familiare, bensì in appositi luoghi al suo esterno.
I contenuti tradizionali ed i valori antropologici caratterizzanti la famiglia erano svuotati e cambiavano i rapporti fra i suoi membri. Il lavoro portava padri e figli a vivere per lo più al di fuori della casa, per cui si creava la necessità di una presenza stabile e servizievole che li attendeva al loro ritorno e li custodiva. Nascevano, così, le figure del padre laborioso e della madre angelo del focolare, tipiche dell’epoca del Romanticismo.
Per quanto riguarda il XX secolo, le opinioni sulla famiglia divergono. Alcuni la descrivono come una famiglia nucleare e sottolineano la drammatica insufficienza di spazio vitale in cui si colloca: si perde il contatto con la natura e i bisogni vitali rimangono repressi, sfociando poi in situazioni di violenza di vario tipo. Così, termina la famiglia tradizionale.
Lo studioso Litwack, più ottimista, introduce la nozione di famiglia estesa modificata, negando l’isolamento della famiglia nucleare nelle società industriali. Esisterebbero, infatti, nuclei familiari non coabitanti, composti da individui di più generazioni e con vari gradi di parentela, che intrattengono fra loro rapporti affettivi ed economici intensi e regolari, pur vivendo spazialmente separati.

 

Oggi

Difficile è delimitare il concetto di famiglia, esistendo casi di convivenza di persone di sesso uguale o di coppie di individui legati da ascendenza o discendenza biologica: è il caso della convivenza di un genitore con il proprio figliolo.
I figli rappresentano un elemento controverso per la definizione della famiglia: per alcuni studiosi sarebbero un elemento costitutivo.
Un altro fattore, comune sia alla struttura sociale in genere che alle dinamiche familiari in particolare, è l’autorità, che consente la convivenza di una pluralità di individui, riuniti in diversi gruppi a carattere stabile e di dimensioni differenti. La famiglia è uno di questi e, al suo interno, l’autorità può essere gestita da soggetti diversi, e, a seconda di quale soggetto sia, possono esserci caratteri discriminanti.
Altri criteri usati per definire una famiglia sono quello della coabitazione e della cooperazione economica, sempre più diffusi.
L’istituzione del matrimonio è rilevante perché da esso deriva il riconoscimento della famiglia da parte della società e della cultura locale.
Modelli di famiglia sono: quello della famiglia estesa, ossia una configurazione ampia, comprensiva non solo dei genitori e dei figli, ma anche di individui di più generazioni non tutti consanguinei. La sua estensione si riferisce non tanto al numero dei componenti, quanto alla sua apertura a vari livelli e con gradi di parentela maggiori del II grado. L’altro modello è quello della famiglia nucleare, composta di genitori e figli, detta anche famiglia coniugale, per sottolineare l’importanza che vi ha il matrimonio.
Tra le nuove tipologie di famiglia si ricordano le c.d. famiglie spezzate (broken families), dove viene a mancare, per le cause più diverse, uno dei due consorti.
Attualmente, la famiglia presenta maggiori frammentazioni e atomizzazioni. La continua urbanizzazione e gli altri fenomeni socio-economici, ad esempio separazioni e disoccupazione, si ripercuotono sulla famiglia costringendola a ridursi sempre di più e a diventare anche sempre più povera per la mancanza di quella rete di vincoli e quelle relazioni di solidarietà e di sostegno presenti nelle famiglie estese.

Le Nazioni Unite hanno proclamato il 1994 “anno internazionale della famiglia”, come momento privilegiato per riflettere sulla situazione di una istituzione che, da sempre, è al centro dello sviluppo umano della persona e della società, come centro primario di relazioni e perciò alla base di ogni tessuto comunitario, persino internazionale, tanto da poter affermare che nella famiglia si stabiliscono le prime regole della democrazia da vivere poi, nell’organizzazione della società civile. Non va trascurato l’interesse delle Nazioni Unite per problematiche specifiche come quelle relative alla situazione delle famiglie dei rifugiati, degli emigrati, della demografia come strumento di informazione e formazione familiare e, non ultimo, della tutela dei diritti umani all’interno del contesto familiare, argomento spesso sottovalutato, ma di crescente interesse.

 

Nella Costituzione Italiana

Nell’art. 29 della Costituzione, prevale la concezione che assegna la massima importanza alla famiglia, definita come “società naturale fondata sul matrimonio” e sottolinea la fondamentale unità dell’istituzione familiare sancita dal contratto matrimoniale. Tuttavia, è possibile riscontrare una concezione sovrapposta ed antitetica.
Se da un canto, infatti, viene tutelato il concetto dell’unitarietà del gruppo familiare, inteso come vera e propria comunità, allo stesso tempo viene messa in luce la pari autorità ed uguaglianza dei due coniugi visti come singoli individui portatori di interessi differenti e titolari di uguali diritti e doveri.
Queste due concezioni, in realtà, non possono coabitare, in quanto l’unità, concepita in maniera istituzionale, è strettamente legata alla presenza di una autorità ben definita all’interno della famiglia, mentre la piena uguaglianza dei coniugi, necessariamente comporta un modello di gran lunga differente o basato su profondi valori etico-morali condivisi da entrambi i consorti e dove l’unità persiste e si identifica con un mutuo soccorso ed un accordo tra le parti.
Spetta allo Stato assicurare le condizioni necessarie perché la famiglia possa liberamente svilupparsi e crescere secondo la propria autonoma volontà.
È importante sottolineare, infine, come l’orientamento interpretativo della norma qui esaminata, abbia sempre più confermato il valore principale della tutela degli interessi della persona anche all’interno della dinamica familiare, dal momento che si è fatto spesso riferimento all’art. 2 della Costituzione che riguarda specialmente i diritti dell’individuo.
Anche l’unità familiare, basata sul consenso costante, viene intesa come mezzo per un ulteriore raggiungimento dello sviluppo della personalità dei singoli individui e pertanto subordinata temporalmente al perdurare delle esigenze reciproche dei coniugi.

lalegge

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IL DIRITTO DI PROPRIETÅ

 

  1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri
  2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.

 

Il diritto di proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico; coincide quindi con la titolarità di un bene, acquisita mediante uno dei cosiddetti modi di acquisto della proprietà ed è il massimo ed il più esteso di tutti i diritti reali.
Il concetto giuridico di proprietà, pur mutando nelle varie epoche storiche, può tuttavia essere sempre ricondotto ad un riconoscimento o ad un’autorizzazione che l’ordinamento giuridico positivo consente ai soggetti perché essi traggano dai beni economici ogni possibile utilità secondo la loro naturale destinazione, senza che gli altri li molestino o interferiscano.

 

Nella Storia

Nelle società più semplici la proprietà è riconosciuta come proprietà comunitaria; essa viene rispettata per la persona appartenente al proprio gruppo sociale. Manca il concetto di proprietà legale ed individuale, specie per quanto riguarda i beni immobili.
Presso gli antichi Ebrei le proprietà terriere e del bestiame erano riconosciute, ma non comprovate da documenti scritti. Essi esistevano invece in Egitto e riguardavano vendite o donazioni a privati di terreni dello Stato, che possedeva la gran parte dei diritti sul suolo.
Diversamente, in Grecia si riconosceva la proprietà privata dei bottini di guerra, dei profitti della pirateria e del commercio, dei doni ricevuti e dei beni strettamente legati alla famiglia, quali la casa e i mezzi di sussistenza.
In tale regime era inconcepibile una proprietà dello Stato o del sovrano; si dovranno attendere le influenze delle Monarchie Orientali per poter cominciare a parlare di proprietà pubblica.
La notevole estensione dell’Impero Romano e quindi l’esistenza in esso di diverse forme di proprietà, non potevano permettere una definizione univoca. Tuttavia il diritto di proprietà non era forse mai stato tutelato come in quest’epoca. Le limitazioni imposte dall’autorità pubblica, infatti, sono state per tutta l’epoca classica, assai scarse. La proprietà era dunque illimitata, assoluta ed esclusiva, comportando la facoltà di escludere l’intervento di altri; era infine elastica, nel senso che, il venir meno dei limiti, imposti momentaneamente dalla legge o dall’insorgere di un diritto altrui, permetteva al diritto di proprietà, di riprendere immediatamente l’estensione originaria.
Nel periodo di transizione al Medioevo, il concetto di proprietà evolveva secondo il diritto germanico. Infatti all’atto dell’invasione, i dominatori fecero proprio il concetto romano, rielaborandolo in due diverse direzioni.
Da un lato, un complesso di limitazioni all’assolutezza della proprietà romana, derivanti dall’antica proprietà collettiva germanica; dall’altro, un complesso di figure che venivano considerate proprietà, sebbene mancasse quel potere di disposizione che ne era caratteristico, o sebbene spettasse a più persone che potevano essere qualificate insieme come proprietarie.
Il concetto di proprietà poteva essere anche riferito a quella forma di dominium che un’autorità politica poteva esercitare sul suddito. Si assisteva al passaggio dal concetto di schiavitù a quello di servitù. In entrambi i casi l’uomo, come il terreno, era proprietà del signore, ma, mentre lo schiavo doveva solo rispondere ad ordini precisi, il servo acquistava la responsabilità del suo operato.
Questa situazione, cioè quella di considerare la persona come oggetto, generava lotte per l’abolizione della condizione e soprattutto del concetto di schiavitù. Si confronti a riguardo la scheda dell’articolo 4.
Il cambiamento avvenuto portava ad una trasformazione non solo della condizione materiale dell’individuo, ma anche alla variazione in senso moderno del concetto di proprietà.

 

La difesa o la contestazione del diritto di proprietà ha dato origine a diverse ideologie.

Il giusnaturalismo infatti, all’inizio del 1600, considerava la proprietà come un diritto fondamentale insieme alla vita e alla libertà.
Alla fine dello stesso secolo, John Locke ribadiva il medesimo concetto, considerando il diritto di proprietà come un mezzo di sussistenza, e perciò un diritto inalienabile. Su questa base Locke elaborava la tesi del liberalismo, nella quale affiancava al diritto di proprietà, le regole della libera iniziativa e quelle del mercato. Lo Stato veniva visto come garante di tale diritto e difensore della borghesia emergente. La rivendicazione del diritto di proprietà verrà portata avanti dalla classe borghese nella Rivoluzione Francese, la quale sopprimendo gran parte delle figure che limitavano il potere di disposizione del proprietario, aveva permesso il ritorno alla concezione della proprietà come un diritto assoluto di carattere individualistico.
Dopo l’esplosione della Rivoluzione Industriale a fine ‘700, il socialismo utopico francese, nella persona di Proudhon, distingueva tra proprietà e possesso, riconoscendo solo a quest’ultimo una giustificazione. Mentre la prima infatti, trovava giustificazione come condizione di libertà, perché la persona potesse provvedere con essa alle proprie necessità, non poteva essere giustificata quando si formava come reddito senza lavoro.
L’appropriazione del frutto del lavoro di molti operai da parte di pochi capitalisti, si definiva un furto.
Al contrario, il lavoro come produzione permetteva di avere un possesso, frutto della propria operosità.
Karl Marx invece, nel suo socialismo scientifico, proponeva la collettivizzazione di ogni forma di proprietà, anche quella dei mezzi di produzione, intendendola come causa di sfruttamento e di alienazione.
Solo eliminando la proprietà, che diveniva tra l’altro il pretesto della divisione in classi delle persone, si potevano raggiungere condizioni e possibilità socio-economiche per la realizzazione della giustizia sociale.
Nell’epoca contemporanea la Rivoluzione Russa ha segnato una tappa importante nella storia della proprietà dando vita ad un sistema economico-sociale che condannava la proprietà privata in linea di principio. Fu favorito come conseguenza, l’emergere dell’autogestione proletaria che, tuttavia, fu presto sostituita da una gestione statale.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’esperienza del collettivismo è stata ripresa in diverse forme ad opera dei paesi a socialismo reale, pur senza raggiungere le finalità politiche, socio-economiche prefissate.
La Dottrina Sociale della Chiesa, definita alla fine del secolo XIX considerava la proprietà non più come diritto naturale ma come diritto sociale, da poter difendere solo quando la comunità abbia soddisfatto i propri bisogni. Già dai primi secoli dell’affermarsi del Cristianesimo, i beni venivano messi in comune dai cristiani perché, chi fosse nel bisogno, non venisse a soffrire di qualcosa. Nel VI secolo d.C., il Papa Gregorio Magno spiegherà la carità come giustizia distributiva per arrivare poi, nel corso della storia, all’enciclica Laborem Exercens di Papa Giovanni Paolo II, in cui si criticano gli effetti disumanizzanti dei due più grandi sistemi ideologici così come si sono realizzati nella storia: il capitalismo e il collettivismo.

 

Oggi

Primo aspetto e requisito giuridico essenziale per il riconoscimento della proprietà è il titolo di appartenenza del bene, ossia il riferimento ad un modo di acquisto riconosciuto dalla legge. Il secondo aspetto o requisito, consiste nel fatto che la titolarità del bene è concessa, in ogni ordinamento giuridico, per il raggiungimento dell’interesse collettivo; a questo proposito, e questo è il terzo profilo, viene riconosciuta l’opportunità di munire di apposite difese il titolare della proprietà contro gli eventuali molestatori. Tutti gli ordinamenti giuridici positivi, sia quelli ispirati a principi individualistici che quelli ispirati a principi collettivistici, nel dare riconoscimento alla proprietà, oscillano tra l’aspetto individuale della titolarità come signoria piena sulla cosa, e l’aspetto sociale del fine per cui questa è concessa. Si rende dunque necessaria la definizione dei limiti alla proprietà affinché questo diritto venga esercitato in modo da concorrere, consapevolmente o inconsapevolmente, al perseguimento dell’interesse sociale.
Le costituzioni moderne dei paesi occidentali tendono sempre più a spostare il concetto di proprietà privata dal diritto soggettivo al potere-dovere. E così, mentre per le categorie dei beni di consumo non è contestato un diritto soggettivo pieno, per gli strumenti di produzione non si pongono solo dei limiti, ma si pongono anche dei vincoli e degli obblighi che non tanto limitano all’esterno il diritto di proprietà, quanto ne condizionano all’interno l’esercizio, proprio perché sono volti in ogni caso a garantire l’uso della cosa in conformità alla sua naturale destinazione ed ai fini dell’ordinamento giuridico.
In particolare, oggi, la complessità dei sistemi macro-economici a livello internazionale, hanno favorito lo sviluppo delle leggi di mercato a tal punto da estendere il concetto di proprietà all’uso del capitale finanziario insieme all’aumento dei fenomeni di concentrazione monopolistica. Si assiste all’affermarsi del neo-liberismo che vede anche lo Stato coinvolto nei meccanismi della contrattazione e del mercato. La tendenza su scala mondiale è quella del controllo dei grandi mezzi finanziari, di produzione e di scambio che generano forme sempre più drastiche di emarginazione sociale. Per questa ragione si sta imponendo la necessità da parte dello Stato, di esprimere con maggiore chiarezza, l’interesse generale della società civile come tale, e di garantire contemporaneamente, la doverosa finalità del bene comune.
Tutto ciò sarà possibile solo attraverso una gestione di controllo della destinazione dei beni della produzione e dell’accesso generalizzato ai servizi sociali. In relazione a questi, tra altri fattori, si può misurare la qualità della politica di uno Stato a fondamento e come condizione della giustizia sociale che sola, può garantire il funzionamento democratico della vita associata e le premesse di una convivenza pacifica e solidale.

 

Nella Costituzione Italiana

Nella Costituzione Italiana il diritto di proprietà è previsto dagli articoli 42-43-44, i quali dopo aver riconosciuto la proprietà pubblica e privata come titolo per l’uso esclusivo delle cose da parte di precisi soggetti, determina non solo i modi di acquisto ed i limiti della proprietà, ma addirittura anche i modi di godimento, prospettando un intervento dello Stato anche nel settore delle scelte individuali. La Costituzione Italiana dunque, riflette l’evoluzione del concetto di proprietà da diritto soggettivo a potere-dovere, proponendosi esplicitamente lo scopo di assicurare la funzione sociale dell’istituto e di rendere la proprietà accessibile a tutti, in ossequio ad altri principi costituzionali sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2) e sulle attribuzioni della Repubblica circa il superamento degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini ed impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 4).

lalegge

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IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI PENSIERO, DI COSCIENZA E DI RELIGIONE

 

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

 

La libertà di pensiero esprime il diritto alla libera espressione e circolazione delle idee ed è quella che meglio caratterizza la situazione umana come condizione fondamentale del modo di essere e dello sviluppo della vita personale e di una comunità in ogni suo aspetto culturale, politico e sociale. La sua manifestazione contribuisce a realizzare l’interesse generale mentre gli ostacoli ad essa frapposti rappresentano un impedimento alla crescita dell’intera società e quindi una limitazione sia per i sostenitori di quell’idea che per i suoi oppositori.
I mezzi mediante i quali si può manifestare la libertà di pensiero sono la parola, più diffusa, la scrittura, la stampa, la radio, la televisione e cioè i mezzi di comunicazione di massa, lo spettacolo.
La libertà di coscienza, di cui gode ogni persona, consiste nel diritto a poter scegliere quei criteri e quei valori che sono alla base della propria visione della realtà e della vita. In questa dimensione di consapevolezza di scelta, si definisce il campo della moralità e dell’etica che è patrimonio di ciascuno.
La libertà di religione consiste nel diritto di credere o non credere, giacché la libertà di coscienza, in materia di religione, attiene al foro interno di ciascuno e non può per sua stessa natura, essere coartata.
Essa si può esprimere in qualsiasi forma, isolatamente o in comune, in pubblico o in privato.
Il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza personale, si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune.
La libertà religiosa, deve essere intesa non solo come libertà di professione religiosa e di culto in ogni sua forma, ma anche come libertà da ogni coercizione a professare una fede religiosa o a farne propaganda.
Il termine ogni individuo espresso nel testo di questo articolo, sta a significare che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero o il proprio credo religioso, attraverso ogni forma, appartiene alla personalità umana e non al cittadino in quanto facente parte dello Stato, cioè appartiene alla persona come tale prima di essere considerata parte di uno Stato. E lo stesso Stato non può imporre ufficialmente una religione ma deve tutelare e garantire la libertà di espressione a tutte le professioni religiose presenti sul suo territorio, anche a quelle minoritarie.

 

Nella Storia

Matrice e primo esempio della libertà di espressione del pensiero è la libertà religiosa, maturata nella storia della civiltà come cosmovisione di un popolo. Ne ha permesso anche l’evoluzione diventando spesso il riferimento teorico e poi ideologico per lo sviluppo di conoscenze e di esercizio dei poteri.
Basti pensare che le prime grandi monarchie furono delle teocrazie e che l’autorità politica veniva considerata una divinità.
Spesso la religione ha ispirato il progetto politico e culturale delle società; si possono ricordare le religioni millenarie dell’induismo, del buddismo, del confucianesimo e il taoismo, dello scintoismo e del giudaismo, che hanno sentito il bisogno di stabilire il senso della vita attraverso un rapporto armonico fra le persone, con la natura e il cosmo.
Il loro valore storico sottolinea l’importanza che sempre ha avuto la forza dello Spirito e la credenza nel sovrannaturale nella storia dell’umanità. In particolare, questo avvenne anche con l’affermarsi del cristianesimo e dell’islamismo.
È importante ricordare le vicende di rapporti armonici o conflittuali, che si alternarono nella storia.
Nel Medioevo per esempio, in Occidente, la religione, la cultura e la politica procedettero in modo unitario anche se spesso la religione venne usata dai sovrani come strumento di potere.
Nel passaggio all’epoca moderna, si delinearono dei fenomeni specifici; due tra di essi furono esemplari: quello dell’affermarsi delle Chiese Nazionali come distacco dal centralismo della Chiesa di Roma, e quello della Riforma Cattolica e Protestante del XVI secolo. Questo fenomeno, con l’affermazione dei due principi, uno della lotta contro ogni forma di autoritarismo, e quello della libera interpretazione dei Testi della Sacra Scrittura, iniziava un processo di opposizione e di lotta alle due Istituzioni affermatesi precedentemente: il Papato e l’Impero.
Questo rimane vero anche quando, con l’emergere della civiltà industriale in epoca moderna e con l’affermarsi di atteggiamenti più critici nei confronti della cultura tradizionale, è iniziato un processo di secolarizzazione che ha favorito lo sviluppo di una mentalità razionalista, cioè autonoma da concezioni sia religiose che ideologiche.
La ricerca delle cause degli eventi ha spinto ricercatori, scienziati e filosofi a elaborare ipotesi, teorie e sistemi basati sulla spiegazione e sull’interpretazione diretta della realtà.
In questo modo, l’esercizio della libertà di pensiero ha diversificato la conoscenza umana e le sue finalità.
Non si può non ricordare l’opera di G. Galilei, padre della scienza moderna, che ha avviato la distinzione fra ragione e fede, religione e scienza nel reciproco rispetto dei propri ambiti di ricerca e di avvicinamento alla verità.
L’enunciazione della libertà di coscienza religiosa come diritto, ha accompagnato l’evoluzione della storia moderna, fino ad arrivare alla fondazione dello Stato laico. Questo fu inteso come affermazione della separazione fra politica e religione e il dovere dello Stato di ammettere al proprio interno la libera professione religiosa e di culto.
Il riconoscimento della libertà e uguaglianza di tutte le fedi religiose, insieme a quello dell’ateismo e dell’agnosticismo è conquista più recente, ma risalente già allo Stato liberale.
Quanto all’Italia, nel 1848, lo Statuto Albertino definiva religione di Stato quella cattolica e dichiarava tollerate le altre.
La libertà di pensiero viene definita pietra angolare dell’ordine democratico, poiché può ben dirsi che un ordinamento non può funzionare democraticamente, in mancanza di una libertà di circolazione delle idee politiche, sociali, religiose, della morale e del costume. Sono note le alterne vicende di questa libertà, nelle più recenti storie degli Stati moderni: quelli che hanno raggiunto un grado sufficiente di democrazia, sono quelli dove la libertà di pensiero si è andata affermando con una linea più costante.
In Italia una parziale ammissione della libertà in esame era contenuta nello Statuto Albertino all’art. 28 e nel Regio Editto sulla stampa del 1848; essa fu poi limitata dalle leggi ordinarie e distrutta dalle fondamenta, dalla dittatura fascista che impose pesanti catene alla stampa e ai giornalisti. Solo con i Patti Lateranensi firmati nel 1929, si tornò a riaffermare la religione cattolica quale religione di Stato.

 

Oggi

La libertà religiosa continua ad essere materia importante in ogni Paese del mondo e diventa oggetto di normative, non solo di diritto interno ma anche di diritto internazionale generale e pattizio. Fu riaffermata universalmente dall’ONU nella Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948.
Neutralità degli Stati e pluralismo delle confessioni religiose sembrano i capisaldi su cui si avvia una politica costituzionale comune degli Stati europei.
Oggi potrebbe dirsi, come afferma il noto scrittore Hermann Hesse, che “tutte le religioni sono belle; religione è come dire anima ed è indifferente se uno si accosta alla Eucarestia Cristiana o va in pellegrinaggio alla Mecca” Hesse esprime, con questa frase, il rispetto per la pluralità delle religioni, poiché ogni religione esalta l’anima di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura e conoscerne molteplici, significa affiancarsi maggiormente al pensiero dell’umanità.
Purtroppo, in questi ultimi tempi si sta assistendo ad una rinascita e all’affermazione di fondamentalismi religiosi forieri di violenza e carichi di intolleranza.
L’esasperazione di certe dottrine religiose e/o politiche, comporta il mancato riconoscimento della pari dignità e dell’uguaglianza delle religioni, la impossibilità di esprimere il pluralismo politico impedendo, così, l’attuarsi di una democrazia rispettosa dei diritti e delle opinioni di tutti, maggioranze e minoranze.
Se le teorie e/o le idee dominanti non sono in grado di accettare il confronto offerto da altre e diverse manifestazioni del pensiero, diventa difficile far convivere le differenze di cui si fanno portatori i vari popoli e gruppi che oggi, sempre con maggiore frequenza, si incontrano e convivono.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana, con l’art. 19, attribuisce a tutti la libertà di professare liberamente la propria fede religiosa sotto qualsiasi forma, individuale e associata, di propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto purché non si tratti di riti contrari al buon costume, unico limite previsto che non si ravvisa nella Dichiarazione Universale.
L’ampio riconoscimento della libertà di pensiero è contenuto nell’art. 21: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo” nel senso che la legge deve garantire a tutti la possibilità giuridica di usare i mezzi necessari alla manifestazione del proprio pensiero o di accedervi, con le modalità ed entro i limiti previsti dalla legge.
Nel secondo comma dell’art. 21 si afferma che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”. L’unica forma di limitazione prevista a tale riguardo è il sequestro, una misura avente carattere repressivo, che può essere posta in essere solo dopo la pubblicazione dello stampato e al fine di impedirne la diffusione.
Sempre con lo stesso articolo, è prevista la possibilità di procedere al sequestro solo con un atto motivato dall’autorità giudiziaria nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa lo autorizzi espressamente e nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescrive per l’indicazione dei responsabili. L’importanza e l’incidenza della stampa ai fini della formazione dell’opinione pubblica, ha indotto il costituente a prevedere che “la legge può stabilire con norma di carattere generale che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica”.
La conoscenza dei nomi dei proprietari e dei finanziatori della stampa, è indispensabile all’opinione pubblica per orientarsi sui possibili gruppi economico-finanziari che, sorreggendo la stampa, desiderano perseguire gli interessi propri.
Anche lo spettacolo, altra espressione della diffusione del pensiero, è regolato dall’ultimo comma dell’art. 21 quando vieta quelli contrari al buon costume domandando alla legge, di stabilire provvedimenti adeguati, prevenire e reprimere le violazioni di queste disposizioni normative. Da ciò risulta l’importanza di godere della piena libertà di manifestazione del pensiero in tutte le sue forme, nel rispetto della disciplina imposta a garanzia di una generale convivenza democratica.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI OPINIONE E DI ESPRESSIONE

 

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

 

L’informazione e la comunicazione sono da sempre considerate uno dei bisogni essenziali della persona e della società e quindi, al tempo stesso, bisogno individuale e collettivo. Da sempre sono state associate all’idea di libertà, ancor prima di essere prese in considerazione dal diritto.
Nel corso della storia emerge continuamente la rivendicazione della libertà di pensiero e di espressione, e tra le libertà fondamentali, i giuristi le reputano in epoca contemporanea, una priorità. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani considera in questo articolo, un duplice aspetto del diritto di informazione: il diritto di libera manifestazione e diffusione del pensiero e dell’informazione accanto al diritto a ricevere l’informazione e ad accedere alle fonti stesse delle informazioni.
La formulazione dell’articolo è tale da ricomprendere tutti i mezzi di comunicazione e l’ormai acquisita possibilità di superare le barriere della sovranità degli Stati.
Accanto al principio della libertà di informazione si afferma, con chiarezza, quello della libera circolazione della stessa.

 

Nella Storia

La libertà di espressione nasce come possibilità degli uomini di comunicare attraverso parole, segni e simboli e, in minima parte, attraverso la scrittura sino al XV secolo quando con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la comunicazione è diventata uno strumento al servizio del potere.
A partire dal 1500 la preoccupazione maggiore dei governi continua ad essere quella di limitare la diffusione di notizie contrarie agli interessi dello Stato fino ad attuare sistemi di censura preventiva ad opera del monarca. Le tipografie ricevono l’autorizzazione a stampare; si assicura così il monopolio dell’editoria e della diffusione.
Si può parlare quindi di libertà per la stampa e non di libertà di stampa, che va considerata come mirata all’edizione di libri per una élite intellettuale.
In Inghilterra nel 1644 John Milton nella sua Areopagitica, discorso per la libertà di stampa dalla censura, condanna i divieti nei confronti della stampa. Quest’opera, nonostante i suoi limiti, rappresenta la pietra miliare dell’ideologia liberale in tema di libertà di stampa.
Nel 1665 la monarchia inglese abolisce il Licenzing Act e, con questo, la censura ed il relativo privilegio reale. Al controllo preventivo però si sostituisce quello successivo, operato dalla magistratura mediante arresti in caso di pubblicazioni giudicate sovversive.
Da Milton alla Rivoluzione Francese il solo vero diritto riconosciuto è quello di informare, cioè il diritto di espressione, mentre non si fa esplicito riferimento al diritto di ricevere l’informazione. E quanto al primo, non mancano esigenze di confinarlo entro spazi ben definiti, di porre dei limiti alla libertà incondizionata per prevenire gli abusi. Infatti il primo dei dieci emendamenti alla Costituzione Americana, che garantiscono i fondamentali diritti civili, afferma che il Congresso non potrà porre in essere leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o per proibire il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa.
È nella seconda metà del ‘700, nel fervore delle idee dell’Illuminismo, negli sviluppi della rivoluzione industriale, nei moti delle Rivoluzioni Americana e Francese, che emerge il concetto di cittadino e quello di opinione pubblica. Si afferma il diritto di informare all’interno della più vasta rivendicazione della libertà.
Per quanto riguarda la Francia l’art. 11 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, adottata dall’Assemblea Nazionale il 26 agosto 1789 dichiara: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi diritti dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà contemplati dalla legge”.
È solo all’inizio del 1700, in Inghilterra, che si afferma il principio secondo il quale spetta all’autore, il diritto di godere dei vantaggi materiali della sua opera: nasce il diritto d’autore.
Tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 il liberismo propugna l’abbattimento di tutti gli ostacoli alla libertà d’espressione, mentre la libertà effettiva è limitata alla élite in grado di disporre dei mezzi economici per il suo esercizio. Su questo aspetto Marx sviluppa la sua critica, puntualizzando le limitazioni imposte dalla proprietà privata dei mezzi di produzione.
Dalla fine del 1800, i mutamenti tecnologici, sociali e politici, permettono di affermare progressivamente il diritto a ricevere l’informazione. In questo ambito la censura viene abolita in Germania nel 1848 e in Francia nel 1872.
Queste libertà tornano ad essere minacciate durante la prima guerra mondiale con la reintroduzione della censura preventiva. Successivamente, nei paesi dove fascismo e nazismo si impongono, nasce un nuovo fenomeno: l’informazione come strumento di propaganda.
In Unione Sovietica l’informazione rivoluzionaria diventa presto monopolio assoluto del Partito-Stato e l’affermarsi dello stalinismo estende la censura anche ai dati relativi alla situazione del Paese. Visto l’uso distorto della comunicazione nella seconda guerra mondiale, il Trattato di Pace di Parigi del 1947 stabilisce che i paesi sconfitti devono garantire il rispetto dei diritti umani, inclusa la libertà di pensiero e di informazione.
Negli anni 1946-’48, in un quadro ormai da guerra fredda, il problema dell’informazione viene trattato fin dalla prima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, in quanto materia ricompresa nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in particolare in questo articolo 19.
Gli stessi principi di tale Dichiarazione vengono ripresi ed ampliati da altri strumenti internazionali. Tra questi si può citare in primo luogo Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici adottato dalle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, il quale, a differenza della Dichiarazione, ha la forza giuridica dei trattati che vincolano gli Stati. Il disegno dei nuovi strumenti, post – Dichiarazione, mira a confermare la libertà di informazione da una parte e ad eliminare le possibili distorsioni di un uso indiscriminato di tale libertà dall’altro. In quest’ultima preoccupazione si mescolano motivi di ordine morale, con la ragion di stato.
Un altro strumento regionale giuridicamente vincolante è la Convenzione Americana dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Organizzazione degli Stati Americani (O.S.A.) ed entrata in vigore nel 1978.
Il panorama generale si completa citando l’Atto finale di Helsinki firmato il 1/8/75 da 35 Paesi, di cui 33 europei, più Canada e U.S.A., al termine della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (DECANY 1992). In essa si ribadisce la libertà di circolazione dell’informazione, a livello internazionale.

 

Oggi

La realtà contemporanea è caratterizzata da un limitato rispetto di questo diritto. Sono individuabili, infatti, due forme di violazione in ambito internazionale. La prima consiste in una esplicita negazione del diritto alla libera opinione ed espressione tramite norme costituzionali, come ad esempio in Marocco dove, in virtù di un articolo della Costituzione, si proibisce la critica alle istituzioni ed alla politica del regime, ai fondamenti dell’Islam e soprattutto alla figura del Re. La seconda forma si esprime attraverso una serie di interventi repressivi, ma non manifesti, a tale libertà. Spesso consistono nell’adozione di documenti dai confini volutamente vaghi, e non circoscritti, tali da consentire all’ordinamento statale di vanificare il diritto in questione. Un esempio è offerto dall’Organizzazione della Unità Africana (OUA) che ha adottato la Carta Africana del Diritti dell’Uomo e dei Popoli entrata in vigore il 21 ottobre 1986 nella quale, se da un lato si afferma che la libertà di pensiero deve esercitarsi senza restrizioni, dall’altro, tuttavia, se ne circoscrive la portata “nell’ambito della legge”.
Indiretto strumento di repressione, ma di notevole forza, è quello di mantenere inalterati gli alti tassi di analfabetismo, sì da impedire aprioristicamente la stessa consapevolezza di tale diritto.
Va ricordato poi come la società contemporanea sia definita come una società di massa in virtù dell’uso e dello sviluppo sempre crescente degli strumenti della comunicazione. Questi, omologando le informazioni e le conoscenze per larghi strati della popolazione, la rendono solo consumatrice di cultura e di informazioni. La gestione monopolistica dell’informazione fa degenerare la cultura a grossolano strumento di manipolazione. Il rischio di un dominio totalitario dei mezzi di comunicazione di massa, può pervadere molte delle strutture della convivenza sociale, mettendo anche a repentaglio il requisito democratico delle istituzioni e l’esercizio della partecipazione.
La convivenza sociale a livello internazionale si sta dirigendo verso ciò che è stato definito un villaggio globale, basato sulla tecnologia informatica e sulle comunicazioni via satellite, ma dove sembra si conceda uno spazio assai esiguo agli scambi umani e alle relazioni solidali tra i popoli.
L’indipendenza dei mezzi di informazione è essenziale per una società libera e aperta, per sistemi governativi responsabili della salvaguardia delle libertà fondamentali della persona. E’ importante anche poter accedere senza restrizioni a servizi stampa e informazioni estere. La libertà dell’etere permetterà di far comunicare ogni persona o gruppo umano con altri.
La libertà di comunicare non può così essere privilegio di pochi: è un diritto-dovere di ogni persona e di ogni cittadino.

 

Nella Costituzione Italiana

La libertà di espressione è una condizione necessaria per il buon funzionamento del regime democratico. È questo il fine che si propone la Costituzione Italiana.Nell’art. 21 si dichiara: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con le parole, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescrive per l’indicazione dei responsabili…”.
L’articolo è diviso in due parti, l’una relativa alla libertà di manifestazione del pensiero in genere, l’altra alla regolamentazione del principale mezzo di diffusione: la stampa.
A fondamento della libertà di manifestazione del pensiero sta l’idea che questa, rendendo possibile la libera discussione delle idee, sia strumento efficace per il raggiungimento del vero. Va ricordato poi che le libertà civili sono ordinate al pieno sviluppo della persona umana quindi è chiaro che chi si avvale della libertà di manifestazione del pensiero mirando a soffocare la dignità di persone dotate di ragione o ad annullare la libera volontà, non può invocare la garanzia costituzionale.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA LIBERA ASSOCIAZIONE

 

  1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
  2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

 

I principali valori ed obiettivo espressi dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite comportano grandi mutazioni anche all’interno delle libertà previste in precedenza dagli Organismi Internazionali per i singoli individui, grazie in particolare a quanto stabilito all’art. 3, ove si precisa che è necessario “incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione”.
Questo articolo, indica la base di una reale libertà di espressione, di pensiero, di confronto e di aggregazione, poiché solo con una tutela della libertà di riunione e di associazione pacifica è possibile che una persona possa esplicare il proprio diritto ad entrare in contatto con altre persone che condividono o meno le sue idee, ma che perseguono finalità associative analoghe.
Il fatto di poter limitare con orari o luoghi, la libertà di riunione e di associazione pacifica mette in serio pericolo la vitalità stessa delle associazioni e dei movimenti di pensiero, che necessitano di spazi e tempi indipendenti dal volere del governo, a meno che questo non sia dovuto a motivi di ordine pubblico o di estremo interesse per la nazione.
La libertà per la costituzione di un’associazione è giustamente limitata dalle finalità pacifiche della stessa, limite perfettamente comprensibile sia per motivi di ordine interno che internazionale.
Nel secondo comma si analizza, invece, un corollario del primo diritto, ovvero il diritto di ogni individuo a non aderire ad una determinata associazione, ossia che nessuna associazione può in alcun modo obbligare un individuo a farne parte, qualsiasi fine od obiettivo essa persegua.
La precisazione, affatto pleonastica, prende avvio da esperienze passate ed attuali che hanno indotto ed inducono coercitivamente ad associarsi, attraverso promesse di vantaggi possibili o penalizzazioni in caso di mancata adesione. Anche in periodi recenti, in diversi Paesi a sviluppo avanzato, si sono verificati episodi di questo tipo.

 

Nella Storia

Aristotele affermava che l’uomo è per sua natura, essere politico, perché solo nella comunità e quindi nello Stato, può raggiungere la pienezza e la perfezione della sua natura. Perciò lo Stato, come associazione di esseri umani, è la forma più alta di associazione umana.
Fin dall’antichità, veniva attribuita alla persona una necessaria dimensione associativa nella quale soddisfare la propria naturale esigenza di confrontarsi e comunicare con gli altri, nonché di organizzare e svolgere attività comuni con i propri simili.
La libertà di riunione nasce però come diritto, solo attraverso le rivoluzioni del XVIII e XIX secolo traendo origine dalle rivendicazioni e dalle lotte operaie. Viene contemplata per la prima volta dalle Costituzioni moderne, che la collegano alla funzione di legittima pressione sul potere politico da parte dei cittadini. In effetti, la libertà di riunione costituisce il principale strumento di lotta politica e sociale.
La Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1789, nella sua prima versione, non faceva alcun riferimento alla libertà di riunione, ma, alla prima modifica, introdusse espressamente il divieto di riunirsi e di inviare petizioni al governo.
Anche nella Costituzione Francese del 1789 non era espressamente contemplata detta libertà, ma nel dicembre dello stesso anno intervenne un’apposita legge a garantirla, con riferimento però alle sole riunioni pacifiche e svolte senza armi, come d’altra parte verrà indicato in tutte le costituzioni successivamente emanate in Europa. Tra queste, lo Statuto Albertino del 1848 prevedeva la libertà di riunione all’art. 32.
Non trova invece esplicita garanzia nelle Costituzioni ottocentesche la libertà di associazione, che viene considerata implicita nella libertà di riunione. Inoltre, i fenomeni associativi non incontravano nemmeno il favore della disciplina codicistica, che rendeva difficoltoso il riconoscimento della loro personalità giuridica e li assoggettava ad una molteplicità di controlli di ogni genere.
Il regime fascista e gli altri regimi totalitari, poi, negarono del tutto tale libertà, vietando la ricostituzione dei disciolti partiti politici e la creazione di libere organizzazioni sindacali.
Il diritto di associazione trovò, quindi, un esplicito riconoscimento ed una specifica garanzia nelle costituzioni elaborate alla luce della triste esperienza della dittatura, e quindi anche nella Costituzione Italiana del 1948.

 

Oggi

L’estrema attualità di tale disposizione può apparire non evidente qualora si consideri esclusivamente lo standard medio di democraticità raggiunto da diversi Stati della Comunità Internazionale.
Ciononostante, in numerose nazioni, ancora oggi, ai cittadini non è consentito il godimento di una piena libertà di riunione e ancora meno di associazione, attraverso limitazioni sia dirette che indirette, ma comunque non sempre previste espressamente dalla legge.
Se, infatti, la legge non viene accompagnata da una stretta osservanza da parte delle autorità politiche, istituzionali e dalle forze di pubblica sicurezza, facilmente si possono effettuare controlli, perquisizioni e intrusioni non giustificati a fini di verifica o per dissuadere i partecipanti dalle finalità perseguite. Infatti, per persuadere i partecipanti non è necessario il ricorso alla violenza fisica: sono sufficienti termini di preavviso troppo rigorosi o dei limiti esagerati per quanto riguarda l’agibilità dei locali all’interno dei quali effettuare le riunioni, per rendere di fatto impossibile il libero esercizio del diritto di riunione o di associazione.
Esistono anche dei mezzi più subdoli e sottili, quali il potenziamento di messaggi divulgati per mezzo dei mass-media tramite i quali gettare discredito sull’operato delle associazioni o tacciare di sovversione associazioni che svolgono solamente attività di formazione o informazione, raggiungendo risultati notevolmente più consistenti, poiché più difficile diviene la prevenzione dell’illegalità e dell’immoralità dell’azione di diversione.
Numerosi sono i casi che si potrebbero qui riportare a riprova delle situazioni sopra descritte; basti ricordare alcuni periodi di vita politica di Stati latino-americani, quando la dittatura si diffuse in modo preoccupante.
Essa costituisce l’emblema massimo della negazione del diritto qui esaminato, in quanto porta alla scomparsa totale di qualsiasi forma di libertà associativa e di riunione viste come nucleo essenziale della vita democratica di ogni Paese.
In tali situazioni, si giunge addirittura ad esplicite formule di diniego della libertà di riunione di ogni genere, con la motivazione che queste tenderebbero esclusivamente alla modificazione dello status quo. Solo progressivamente è stato possibile intaccare questo controllo governativo, grazie soprattutto, all’intervento di associazioni internazionali di volontariato che hanno garantito una presenza attiva e qualificata, un flusso di risorse ed energie volto al consolidamento della democrazia.
Infatti, nelle democrazie contemporanee il diritto alla libera associazione è fondamentale perché con esso si favorisce il sorgere e l’esplicarsi di un pluralismo sociale. Questo riconosce alla persona che può essere società, sotto varie forme e che la sua stessa appartenenza sociale non si esaurisce nello Stato. Si può poi pensare ad altre forme di pluralismo, come per esempio quello che si esprime sotto il profilo politico dando vita a partiti e sindacati.
Il pluralismo costituisce anche lo spazio del rapporto fondamentale tra sfera privata e pubblica, perché viene riconosciuto al cittadino il diritto concreto di scegliere fra le aggregazioni e le istituzioni statali e non- statali.

 

Nella Costituzione Italiana

La previsione del diritto di riunione e di associazione pacifica è contemplata espressamente nella Costituzione Italiana che, a differenza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nella quale sono riuniti in un unico articolo, dedica a ciascun diritto un articolo ad hoc: l’art. 17 per il diritto di riunione e l’art. 18 per il diritto di associazione.
Probabilmente, la distinta previsione è stata resa necessaria dal particolare sviluppo e rilievo sul piano politico e sociale che l’esercizio del secondo, dei due diritti, è andato assumendo rispetto al primo: si consideri, ad esempio, che i partiti politici e i sindacati, organismi che tanto influenzano la vita politica e sociale di un Paese, assumono, in Italia, proprio la veste giuridica dell’associazione.
Il diritto di riunirsi, secondo la giurisprudenza costituzionale e quella ordinaria, svolge una funzione “servente”, è cioè una libertà strumentale all’esercizio di altri diritti individuali e collettivi e, in quanto strumento di formazione dell’opinione pubblica, è funzionale all’esercizio della stessa sovranità popolare.
Perché si possa avere una riunione, si ritiene che più soggetti debbano incontrarsi nel medesimo luogo in vista di uno scopo comune. La norma costituzionale impone, a pena di scioglimento, che la riunione si svolga “pacificamente e senza armi” e che di essa venga dato preavviso alle autorità che possono vietarla, però, solo per comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica.
La Costituzione nulla dice, invece, circa gli scopi della riunione, che possono quindi essere politici, ricreativi, sportivi, d’affari ecc. e non incontrano limiti nei contenuti, se non quello implicito di conformità ai principi costituzionali e propri dell’ordinamento italiano.
La libertà di riunione e quella di associazione sono molto simili, ma, a differenza della riunione, l’associazione non si caratterizza per la temporaneità della sua durata, bensì per la sua tendenziale stabilità. Statuendo che “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”, il primo comma dell’art. 18 presuppone un concetto molto ampio di associazione, tale da abbracciare tutte le formazioni sociali aventi carattere volontario.
La norma in esame pone l’accento, tuttavia, sulla libertà di associarsi, che spetta a ciascun cittadino, prima ancora che sulle associazioni in quanto tali e, così puntualizzando, garantisce di riflesso la cosiddetta libertà negativa di associazione, cioè la posizione di chi non intende associarsi. Gli scopi associativi possono essere i più svariati e non sono soggetti ad alcuna autorizzazione, ma ciò che la legge penale vieta al singolo, non può essere consentito all’associazione, composta da singoli; viceversa, ciò che è penalmente lecito per il singolo, non può essere vietato ad un’associazione.
Le sole associazioni precluse a priori sono dunque quelle segrete e quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare, come espressamente affermato dal secondo capoverso dell’art. 18.
Un grave limite del dettato costituzionale è dato dal fatto che, facendo esplicito riferimento al diritto dei “cittadini” di riunirsi e di associarsi, esclude i non cittadini dalla garanzia costituzionale. Questo implica, purtroppo, un effetto discriminatorio nei confronti delle persone residenti e non cittadini.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA SOVRANITA’ POLITICA

 

  1. Ogni individuo ha diritto a partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
  2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizione di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
  3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.

 

La partecipazione attiva e passiva della persona alla vita politica del proprio Paese, trova piena esplicitazione nell’articolo, qui considerato. Tale diritto, che si riscontra anche nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite di qualche anno prima, consente una applicazione alquanto libera a seconda delle tradizioni civiche e politiche dei singoli Stati.
La previsione di uguale libertà nelle condizioni di accesso ai pubblici impieghi e l’impegno diretto nella politica del Paese consentono la promozione e la partecipazione individuali a quei valori e a quello sviluppo a cui la Dichiarazione e lo Statuto si riferiscono a più riprese.
Nel terzo comma, viene precisato che la base dell’autorità del governo, va ricercata nella volontà popolare, una volontà che deve essere espressa liberamente in maniera continuativa e periodica secondo modalità che possono essere decise nell’ambito del rispetto delle regole statuite dalla Dichiarazione dei Diritti Umani.

 

Nella Storia

Nell’antica Grecia, le diverse classi sociali contribuivano alla vita dello Stato svolgendo ognuna una funzione specifica. In questa divisione di ruoli, tutti considerati di pari dignità, la funzione di governo e l’esercizio dei diritti politici, primo tra tutti l’esercizio del diritto di voto, spettava solo ai cosiddetti “reggitori”, come li definisce Platone nella Repubblica, cui era riconosciuta la virtù della saggezza e quindi la capacità di governare le altre classi sociali: i guerrieri, cui spettava la difesa dello Stato, ed il popolo, cui competeva lo svolgimento dell’attività economica.
Allo stesso modo, nell’antica Roma la gestione del governo e i diritti politici erano esercitati dai soli patrizi ed erano negati ai plebei, che nella nota metafora di Caio Menenio Agrippa contribuivano alla vita del “corpo” statale con le funzioni di “braccia” e non certo di “testa”.
Fu merito di Marsilio da Padova, nel Defensor Pacis pubblicato nel 1324, sostenere l’origine laica dello Stato e porre in luce la concezione della sovranità popolare, della rappresentatività e del principio maggioritario anche se inteso in modo elitario, come capisaldi del costituzionalismo moderno.
Dopo secoli di feudalesimo e di assolutismo che non lasciarono spazio all’esercizio dei diritti politici, essendo tutti i poteri concentrati nelle mani rispettivamente del feudatario e del sovrano assoluto, la teorizzazione dello Stato liberale formulata da John Locke e successivamente da Charles Luis de Montesquieu, Jean-Jacques Rousseau ed altri, fondò l’ordine politico sul principio della divisione dei poteri in legislativo, giudiziario ed esecutivo.
D’altra parte, in Inghilterra la Magna Charta dei 1215 aveva già posto le basi dei principi di libertà, validi per tutto il popolo inglese e nel 1265 era stato istituito il primo Parlamento che, nella prima metà del XIV secolo, da Assemblea unica si trasformerà in organo bicamerale composto dalla Camera dei Lords, rappresentativa della classe nobiliare, e dalla Camera dei Commons, rappresentativa della emergente classe borghese.
A Thomas More, poi, si deve il primo effettivo esercizio, nel 1523, del potere legislativo e quindi del potere di partecipare al governo del regno attraverso il riconoscimento del diritto di votare contro i disegni di legge della Corona, cui esclusivamente spettava il potere di iniziativa legislativa.
La Costituzione giacobina di Robespierre del 1793, seguita alla Rivoluzione Francese del 1798, costituì un primo tentativo di governo democratico, e quindi di esercizio dei diritti politici da parte di tutti i cittadini, ma degenerò nella tragica esperienza governativa del “terrore” e successivamente nell’imperialismo napoleonico. La restaurazione monarchica segnò la fine dell’esercizio democratico dei diritti politici e solo con l’affermazione della monarchia costituzionale, a seguito delle lotte del XIX secolo, il diritto di voto venne riconosciuto, ma su base censitaria, ossia a coloro che, possedendo un certo reddito e proprietà, si presumeva avessero un diretto interesse al buon governo del Paese.
Al requisito censitario si aggiunse poi quello dell’alfabetizzazione, che, dato l’altissimo grado di analfabetismo soprattutto tra le classi più povere, non consentì una effettiva estensione dell’esercizio del diritto di voto.
Il riconoscimento del diritto di voto per la scelta e l’elezione dei rappresentanti parlamentari attraverso i quali partecipare al governo del proprio Paese, è andato affermandosi nel corso dei secoli XIX e XX superando una serie di condizionamenti.
Il suffragio universale maschile venne riconosciuto in Italia per la prima volta nel 1912, mentre alle donne il diritto di voto fu esteso solo nel 1945. La legge elettorale del 1975 abbassò da 21 a 18 anni l’età richiesta per l’esercizio del diritto di eleggere i deputati parlamentari, mentre confermò il requisito dei 25 anni di età, per l’elezione dei senatori.

 

Oggi

La partecipazione diretta ed indiretta al governo del proprio Paese, requisito fondamentale della democrazia, è ancora oggi uno degli aspetti fondamentali su cui poggia un modello che pone al centro della politica e della società, la persona umana. Non è possibile, ma non è neanche eticamente corretto, precludere a qualsiasi cittadino una partecipazione alla gestione della res publica, a meno che non subentrino gravi motivi che inducano la società ad escludere momentaneamente o definitivamente quel soggetto dalla vita della nazione.
Dall’origine della città greca fino ai giorni nostri, tale regola ha conosciuto e sta conoscendo fasi alterne ma, attualmente, si sta affermando con sempre maggior vigore in un numero sempre più vasto di Stati che ne riconoscono la validità e l’intrinseco valore di giustizia. Da parte loro, le Nazioni Unite hanno lavorato e sostenuto tale prospettiva. In particolare, dopo i due grandi conflitti mondiali, il principio della partecipazione alla vita politica si è affermato nel mondo ed ha ispirato, in modo determinante, i movimenti indipendentisti sorti negli ex possedimenti coloniali negli anni 1960-’70. Ancora oggi, continua ad essere rivendicato da parte di Paesi le cui istituzioni non hanno raggiunto autentici processi di democratizzazione.
Per progredire complessivamente a livello mondiale, in alcuni casi la clausola di democraticità diviene un vero e proprio passe-partout per dialogare ed intrattenere relazioni con altri soggetti di diritto internazionale.
Ove manchi una reale forma di democrazia, spesso viene negata parimenti la statura minima per poter accedere al tavolo della Comunità internazionale.
Il rispetto delle regole della democrazia e quindi della partecipazione, è diventato un requisito necessario che viene richiesto ai vari Paesi per avvicinarsi al dialogo internazionale. Né è un esempio la IV Convenzione di Lomé, che firmata per regolare i rapporti economici tra la Comunità Europea e gli Stati dell’Africa, dei Caraibi e dell’Oceano Pacifico come le precedenti Convenzioni, prevede, in particolare, che tra le condizioni di adesione da parte dei vari Paesi, ci sia il rispetto dei diritti umani e soprattutto il funzionamento democratico dei propri governi. Queste due condizioni garantirebbero anche i requisiti necessari per il progresso civile, la stabilità sociale e uno sviluppo globale.
Va anche sottolineato che il diritto di partecipazione al governo del proprio Paese, richiama l’importanza della volontà popolare come fondamento dell’autorità del governo.
Vi è l’atto di una precisa delega espressa attraverso il voto politico manifestato in modo libero e segreto.
Il sistema elettorale di ogni Paese costituisce un elemento chiave nella definizione della funzione di delega dei cittadini alle autorità politiche e amministrative.
La scelta del sistema elettorale, proporzionale, maggioritario o misto, si fa nello spirito delle leggi costituzionali perché, per la delicatezza del suo funzionamento, potrebbe alterare la corrispondenza tra Paese legale e quello reale.
Oggi, la trasformazione della società in senso multicuiturale pone urgenti interrogativi circa il senso del termine partecipazione, riferita ai cittadini stranieri presenti sul territorio.

 

Nella Costituzione Italiana

Il secondo comma dell’art. 1 della Costituzione Italiana proclama solennemente che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Appare chiaro che la Carta Costituzionale attribuisce la titolarità del potere sovrano al popolo (da intendere come l’insieme dei cittadini), popolo che è titolare anche dell’esercizio (diretto o indiretto) della sovranità stessa seppur nei limiti e nelle forme previste dalle altre norme costituzionali.
È vero che il terzo punto dell’art. 21 della Dichiarazione dei Diritti Umani parla non di sovranità, ma di autorità di governo; si può ritenere che la diversa terminologia esprima un identico concetto: la sovranità/autorità di governo è del popolo e, quindi, in definitiva di ciascun individuo.
“Ciascun individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese…” recita il primo punto dell’art. 21; l’art. 48 della Costituzione Italiana assegna, invece, il diritto di voto a tutti i cittadini stabilendo che tale diritto non può essere limitato che per incapacità civile, sentenza penale irrevocabile, o nei casi di indegnità morale previsti dalla legge.
La previsione contenuta nella Dichiarazione è certamente più ampia di quella contenuta nella Costituzione Italiana. In questa, infatti, nel titolo quarto, dedicato ai rapporti politici, si distinguono i cittadini italiani dai soggetti che non lo sono e si assegnano solo ai primi, diritti non contemplati per i secondi, quali il diritto di voto, il diritto di associarsi in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale, il diritto di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Riguardo al diritto di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, va però detto che il secondo comma dell’art. 51, che lo prevede espressamente, attribuisce al legislatore la facoltà di parificare ai cittadini “gli italiani non appartenenti alla Repubblica”.
Le forme di partecipazione al governo previste dalla Costituzione Italiana sono, in linea con quanto contenuto nel primo punto dell’art. 21, tanto dirette quanto indirette: l’art. 49 attribuisce a tutti i cittadini il diritto di associarsi in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale; l’art. 50 prevede che i cittadini possano rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o per esporre comuni necessità; l’art. 51 offre a tutti i cittadini (ai quali per legge possono essere parificati anche i residenti), la possibilità di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Dell’art. 48, che attribuisce a tutti i cittadini il diritto di voto, si è già detto in precedenza; si vuole qui solo completare il richiamo a questo articolo, aggiungendo che secondo la Costituzione Italiana il voto è personale, eguale, libero e segreto ed il suo esercizio non è solo un esercizio di un diritto, ma di un preciso dovere civico.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA SICUREZZA SOCIALE

 

Ogni individuo, in quanto membro della società ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

 

Il sistema delle assicurazioni sociali previsto da questo articolo è stato istituito per affrontare sistematicamente le situazioni di bisogno dei lavoratori collegate alla posizione di sottoprotezione che essi hanno nella società.
Tale sistema interviene a garanzia del reddito del lavoratore tutte le volte in cui la sua capacità di lavoro, e quindi di guadagno, sia menomata a causa di eventi collegati non solo agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali, ma anche alle malattie comuni, alla maternità, all’invalidità, alla vecchiaia, alla morte, a beneficio, in questo caso, dei superstiti, ed alla disoccupazione involontaria.
Alla base dell’intervento assicurativo e, quindi della sicurezza sociale garantito al lavoratore, vi è da una parte, la valutazione della situazione di bisogno dell’avente diritto all’assistenza, e dall’altra, la conseguente necessità di operare un prelievo sui redditi dei soggetti in grado di produrli.
Nel corso degli anni il sistema delle assicurazioni sociali ha subito una sostanziale modifica. Al modello previdenziale tradizionale, basato sulla copertura dei rischi mediante il versamento dei contributi assicurativi da parte di determinate categorie professionali o gruppi sociali, si è andato sostituendo gradualmente un modello di servizio pubblico previdenziale, fondato in misura sempre maggiore sulla solidarietà sociale, in virtù della quale l’intera collettività è chiamata a sostenere i lavoratori in stato di bisogno.

 

Nalle Storia

L’esigenza da parte dei lavoratori di affermare il diritto alla sicurezza sociale, che a sua volta si articola in una serie di diritti sociali, nasce nella prima metà del XIX secolo.
Tale esigenza derivò dalle profonde trasformazioni socio-economiche prodotte in Inghilterra, agli inizi del secolo, dalla Rivoluzione industriale. Questa modificò profondamente il sistema produttivo e l’organizzazione del lavoro, creando una nuova classe sociale: la classe operaia.
Con la figura dell’operaio mutò la stessa concezione di lavoratore poiché, nel sistema produttivo industriale, quest’ultimo finì per perdere la sua dimensione umana e per essere considerato un mero fattore produttivo, al pari della terra e del capitale, quindi oggetto da sfruttare al massimo e con il minimo costo.
Inoltre, dopo essere stato sfruttato ai limiti della sopravvivenza per diverso tempo o nel corso dell’intera vita, il lavoratore vecchio o malato o invalido o disoccupato per mancanza di lavoro, veniva completamente abbandonato a se stesso, nell’impossibilità non solo di vivere una vita dignitosa, ma persino di sopravvivere.
La Rivoluzione industriale produsse un secondo importante effetto per i lavoratori: mentre nell’Antichità, nel Medioevo e nell’Età moderna, l’organizzazione del lavoro si fondava su piccole unità produttive domestiche, quale la bottega dell’artigiano o il lavoro nei campi, svolto dalla famiglia contadina, il sistema produttivo industriale comportò, per la prima volta, l’accentramento di un gran numero di lavoratori in un’unica sede lavorativa, la fabbrica, e in un unico centro abitativo, il sobborgo della città industriale.
In questi luoghi, accomunati dalle stesse difficoltà lavorative e di vita, gli operai cominciarono a solidarizzare e a prendere coscienza dei loro diritti di lavoratori. Solo allora cominciarono ad esprimere le prime forme comuni di protesta, inizialmente nella forma spontanea della rivolta e, successivamente, nella forma più organizzata dello sciopero.
Attraverso dure lotte venne così attivato il processo volto al progressivo riconoscimento dei diritti sociali dei lavoratori.
Dopo circa un secolo e mezzo, tale processo è in pieno svolgimento e in molte nazioni, che fanno ancora ricorso al lavoro forzato e allo sfruttamento dei minori, come ad esempio la Cina, è appena cominciato.

 

Oggi

Il diritto alla sicurezza sociale costituisce probabilmente una delle sfide più ambiziose, ma anche più attraenti dell’articolo qui in esame.
Se infatti diversi Paesi a sviluppo avanzato solo da pochi decenni possono forse vantare uno standard minimo di applicazione di parametri dignitosi, circa un secolo fa nessuno Stato al mondo poteva fregiarsi di una avanzata tutela nei confronti della persona umana.
La nozione di sicurezza sociale si è andata delineando nel corso della storia grazie alla progressiva affermazione dello Stato sociale. Con una tale impostazione si è radicato nella Comunità internazionale un nuovo atteggiamento nei confronti della società civile ed, in particolare, nei confronti di quegli individui che si venivano a trovare mancanti dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla loro volontà.
Conseguente è stato, quindi, l’intervento dello Stato nella predisposizione ed utilizzazione di strumenti che garantiscano un tenore di vita dignitoso.
Per garantire un livello standard nazionale che consenta veramente di definire un regime di sicurezza sociale è strettamente necessario che numerosi altri tasselli in materia di diritti fondamentali, vengano apposti e rispettati.
Si potrebbe definire in qualche modo una “cartina al tornasole” del funzionamento di un sistema istituzionale, politico e sociale nel quale la persona gode realmente di una piena considerazione nella società.
Capita così di scoprire, analizzando la storia di vari Paesi, che non necessariamente il diritto alla sicurezza sociale ha conosciuto un maggiore sviluppo in concomitanza di elevati livelli di reddito pro-capite, ciò a riprova del fatto che determinate garanzie sociali dipendono esclusivamente, in maniera diretta ed indiretta, dalla importanza ed attenzione che la popolazione e l’elettorato assegnano loro nel corso dell’evoluzione dello Stato-nazione.
In tal senso appare emblematico l’indicatore dello sviluppo umano elaborato dall’UNDP, un programma delle Nazioni Unite che si occupa specificatamente di cooperazione internazionale. Tale indicatore viene definito utilizzando una serie di variabili relative non solo al reddito medio pro-capite, ma anche al tasso di scolarizzazione ed alla speranza di vita. Il grado dello sviluppo sociale diviene così un elemento riconosciuto anche a livello internazionale quale indice della maturità istituzionale dalle Nazioni Unite.
Quello che attualmente appare più innovativo, seppur spesso di parziale applicazione, è rappresentato dal rispetto dei diritti umani economici sociali e culturali, citati all’articolo qui esaminato. Non si tratta, infatti, di un insieme di disposizioni prive di significato normativo, ma quel che più risalta nel loro complesso è la spiccata rivoluzionarietà che esse apportano all’intero sistema giuridico della comunità internazionale, grazie specialmente alla spinta di Stati di nuova indipendenza.
Questo articolo della Dichiarazione Universale non manca di sottolineare vigorosamente la necessità di offrire e garantire uno sviluppo libero della personalità umana, condizione indispensabile per il pieno godimento di varie altre libertà.
E non va qui tralasciato il ruolo svolto dalla cooperazione internazionale quale fattore di promozione del processo di sviluppo umano. L’esperienza maturata in diversi continenti dai progetti di cooperazione allo sviluppo convalida pienamente la funzione di stimolo che una collaborazione tra rappresentanti di Stati diversi, può svolgere in materia di sviluppo umano e di salvaguardia dei diritti economici sociali e culturali.
Tali diritti vengono, successivamente, esplicitati nel Patto Internazionale sui Diritti sociali economici e culturali delle Nazioni Unite nel 1966, entrato in vigore nel 1976, che rappresenta un’ulteriore tappa di maturazione del grappolo iniziale previsto nell’articolo qui esaminato.
Specificatamente l’art. 9 stabilisce, oltre al diritto alla sicurezza sociale, quello alle assicurazioni sociali, ovvero tutti quegli strumenti ritenuti idonei al conseguimento dell’obiettivo di un diffuso benessere in relazione all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche ed ai servizi sociali necessari.
Di fatto, però, il principio della sicurezza sociale è oggi messo in crisi da due fattori che interessano l’area dei Paesi industrializzati: l’invecchiamento demografico e la recessione economica.
Il primo fattore comporta uno squilibrio numerico tra coloro che, in numero decrescente, sono in grado di lavorare, produrre reddito e pertanto versare contributi previdenziali ed assicurativi e coloro che, in numero crescente, beneficiano del sistema di sicurezza sociale.
Con riferimento al secondo fattore è da rilevare che l’economia dei Paesi industrializzati attraversa, a partire dalla fine degli anni ’80, una fase di profonda crisi caratterizzata da un rallentamento delle attività produttive e da un incremento del tasso di disoccupazione.
Si vorrebbe attribuire la responsabilità di detta crisi, proprio ai costi dei sistemi di sicurezza sociale, tagliati i quali, maggiori dovrebbero risultare gli investimenti produttivi. Ma la natura strutturale della crisi in atto trova la sua spiegazione proprio nelle modalità dei processi produttivi e nell’avanzamento tecnologico che rendono sempre meno necessari l’impiego di nuovi lavoratori per il conseguimento di più alti livelli di produzione. Ciò implica un impoverimento della popolazione, un abbassamento della domanda di beni e pertanto un rallentamento della attività che li produce.
L’attuale crisi fiscale propria, ad esempio, dei Paesi Occidentali, non permette la sostenibilità dell’alto costo dei servizi sociali sia per l’abbassamento dei redditi a livello di popolazione in generale, sia per il fenomeno ancora esteso delle evasioni fiscali che impediscono un gettito di imposte tali da poter permettere allo Stato la copertura dovuta.
Questa contraddizione tra gestione politica ed erogazione di servizi, determina un conflitto non indifferente tra disponibilità di risorse e soddisfacimento dei bisogni.
La qualità della politica di uno Stato si misura sulla sua capacità di saper conciliare e rispondere alle necessità della popolazione nella propria programmazione.
Diventa un problema di scelte politiche da priorizzare visto che lo Stato soffre di una permanente crisi finanziaria.

 

Nella Costituzione Italiana

Anche nella Costituzione Italiana è contemplato esplicitamente un diritto alla sicurezza sociale, ma la terminologia usata è leggermente diversa: l’art. 38, infatti, attribuisce ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
L’articolo, dopo aver elencato le situazioni che hanno diritto alle prestazioni assistenziali e dopo aver sottolineato che soggetti svantaggiati, quali inabili e minorati, hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale, pone a carico dello Stato, in via primaria o subordinata, il compito di dare attuazione alle previsioni in esso contenute.
Tuttavia, pur dovendo essere lo Stato il principale artefice della sicurezza sociale, ampio spazio viene lasciato alla sfera di operatività di enti o associazioni di assistenza privata. Può infatti ritenersi che tale sia il senso dell’ultimo comma dell’art. 38: afferma che l’assistenza privata è libera. Ciò conferma che l’agire dello Stato non deve ostacolare il libero attuare del settore privato, soprattutto nel caso in cui questo riesca a perseguire in maniera più efficace scopi di pubblica utilità.

lalegge

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IL DIRITTO AL LAVORO

 

  1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
  2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
  3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
  4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

 

 

Il diritto al lavoro è uno dei diritti fondamentali in quanto il suo svolgimento consente all’individuo di esprimere la propria personalità, mentre la sua mancanza non permette di condurre un’esistenza conforme alla dignità umana, lo priva della possibilità di sviluppare le sue potenzialità.
La necessità, poi, di soddisfare i propri bisogni primari, e non solo quelli, dà l’esatta misura dell’importanza che assume l’esercizio del diritto stesso.

 

Nella Storia

I molti diritti affermati in quest’articolo, dal lavoro liberamente scelto e svolto in condizioni soddisfacenti alla giusta remunerazione per tutti allo stesso modo, al sistema di protezione sociale contro la disoccupazione ed in particolare contro altre difficili condizioni, ad esempio di malattia, di invalidità o di vecchiaia, sono tutti volti a realizzare quella sicurezza sociale citata nell’articolo precedente. Ad esso infatti si rinvia per i cenni storici generali, qui ci si sofferma invece più attentamente sui diritti indicati esplicitamente.
L’operaio degli inizi dell’800 non solo non aveva diritto al lavoro, né tantomeno alla scelta dell’impiego, ma era costretto a lavorare in condizioni disumane con un estenuante orario lavorativo e in pessime condizioni igienico-sanitarie. Ciò, in cambio di un salario di sussistenza, insufficiente a mantenere dignitosamente una famiglia. Se poi, per qualsiasi motivo, l’operaio non era più in grado di lavorare, anche solo temporaneamente, perdeva immediatamente il posto di lavoro e, con esso, qualsiasi mezzo di sussistenza, dato che non era prevista alcuna misura di protezione in caso di malattia, di invalidità, di vecchiaia o di disoccupazione. Anche la donna era sfruttata come forza-lavoro e, pur svolgendo le stesse mansioni e lavorando le stesse ore dell’uomo, era sottopagata per il fatto di avere meno forza dell’uomo. Persino il bambino era considerato forza-lavoro e già dall’età di 4-5 anni lavorava fino a 10 ore al giorno, anche di notte, svolgendo lavori durissimi, ad esempio in miniera.
Lavorando insieme nella fabbrica e vivendo tutti nel sobborgo industriale, gli operai cominciarono ad organizzarsi in associazioni di lavoratori, a partire dal 1829, e in associazioni sindacali, alla fine dell’800. La protesta spontanea assunse ben presto la forma organizzata dello sciopero generale. Anche le donne cominciarono ad organizzarsi in associazioni femministe alla fine del secolo, unendo poi la loro protesta a quella dei sindacati operai. Le prime misure di legislazione sociale vennero attuate in Gran Bretagna, patria della “Rivoluzione industriale”.
Dopo le prime conquiste nella prima metà del XIX secolo relative alla disciplina dell’orario lavorativo, le legislazioni sociali ebbero una seconda importante fase di sviluppo nel primo decennio del XX secolo, quando vennero emanate le prime leggi sui minimi salariali, sugli infortuni sul lavoro, sulla vecchiaia e le pensioni, sui sussidi di disoccupazione.
Col nuovo secolo, inoltre, i diritti di tutela sociale del lavoratore furono riconosciuti anche a livello internazionale e trovarono una specifica sede di riconoscimento nella Organizzazione Internazionale del Lavoro (O.I.L.), appositamente istituita dagli Stati nel 1919 allo scopo di elevare le condizioni sociali ed economiche del lavoratore. Da allora l’O.I.L. ha prodotto ben 174 Convenzioni che, una volta ratificate, impegnano gli Stati a riconoscere e a rendere effettivo l’esercizio dei diritti sociali.

 

Oggi

A chiare lettere il primo comma dell’art. 23, dopo aver affermato l’esistenza per ogni individuo del diritto al lavoro, si spinge oltre, affannando il diritto alla libera scelta dell’impiego nonché a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro. Si fa poi cenno alla protezione sociale, argomento per il quale si rimanda a quanto detto in relazione all’art. 22.
È chiaro che, se è vero che lavorare è un modo per esprimere la propria personalità, il lavoro deve essere liberamente scelto e non imposto, le condizioni di lavoro non devono essere particolarmente gravose, i locali in cui i lavoratori prestano la propria opera devono essere salubri, i rischi del lavoro devono essere ridotti al minimo.
Va detto che, se molto è stato fatto per consentire condizioni di lavoro più giuste, poco o niente garantisce il diritto alla libera scelta dell’impiego. Le possibilità di trovare un lavoro sono, infatti, talmente scarse che di fatto diviene spesso impossibile sceglierle liberamente.
La realtà odierna ne offre una dimostrazione lampante.
Anche il secondo comma dell’articolo in esame afferma un principio importantissimo: ad eguale lavoro deve corrispondere eguale retribuzione. Molti passi sono stati fatti su questa strada, soprattutto per quanto concerne l’equiparazione del lavoro femminile, al lavoro maschile.
In Italia, ad esempio, una decisiva svolta nel senso del rafforzamento della tutela paritaria è stata impressa dalla L. 903/77, che va ben oltre l’obiettivo della pari retribuzione, mirando ad attuare una effettiva parità di trattamento e di opportunità di lavoro.
Un successivo intervento legislativo (L.125/91) ha rafforzato la tutela paritaria della donna nel lavoro, introducendo strumenti di tutela preventiva contro le discriminazioni, tanto dirette quanto indirette, e promuovendo l’attuazione di misure finalizzate alla rimozione di simili ostacoli.
Il diritto ad una retribuzione equa e soddisfacente è condizione essenziale perché l’individuo possa condurre un’esistenza libera e dignitosa, dunque l’affermazione secondo la quale ad eguale lavoro deve corrispondere eguale retribuzione, è di grande rilievo perché espressione degli elementari principi di uguaglianza.
Il riconoscimento del diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi ha poi il preciso significato di considerare il lavoro non un bene individuale ma collettivo, da difendere quindi anche grazie all’azione di associazioni, nate per tutelare interessi di categoria.
Ma ancora oggi, diritti fondamentali quali il diritto di associazione, il diritto alla parità di trattamento rimunerativo, previdenziale ed assicurativo, le libertà sindacali e persino il divieto al lavoro forzato e del lavoro minorile, tutti principi raccolti nella cosiddetta clausola sociale, non sono universalmente riconosciuti ed anche quando sono accolti sul piano formale, comunque, risultano troppo frequentemente disattesi; basti pensare, ad esempio, all’attualissimo problema dello sfruttamento in Europa degli immigrati extracomunitari, sottoposti a condizioni di lavoro e di vita, tutt’altro che decorose.
È tristemente significativo, inoltre, che l’Unione Europea, i cui Paesi membri sono tra i più progrediti in quanto a riconoscimento formale e al rispetto sostanziale dei diritti sociali, non sia riuscita ad esprimere l’unanimità in occasione della elaborazione della Carta Sociale del 1989. Detto documento, infatti, è frutto di un dialogo sociale tra undici Paesi; non ha visto la partecipazione del Regno Unito.

 

Nella Costituzione Italiana

La Carta costituzionale del 1948, a differenza del precedente Statuto Albertino, impegna lo Stato in nuovi compiti di intervento nella società, nella forma non più solo della garanzia di tradizionali libertà negative, ma altresì della affermazione di nuovi diritti sociali, quali il diritto al lavoro e il diritto alla sicurezza sociale.
L’azione dei poteri pubblici, infatti, deve essere volta a modificare l’assetto sociale ed economico secondo un modello di giustizia sociale ben diverso da quello che risulterebbe dal gioco spontaneo delle forze economiche e sociali dei singoli e dei gruppi.
Le nonne costituzionali che conferiscono al lavoro la caratteristica di strumento idoneo a rendere possibile lo sviluppo della personalità dell’individuo sono numerose: l’art. 1 comma 1, che vuole la democratica Repubblica Italiana fondata sul lavoro; l’art. 4, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e che pone a carico dei pubblici poteri l’impegno di promuovere le condizioni che lo rendano effettivo; l’art. 41 comma 2, recante l’apposizione di limiti alla libertà di iniziativa economica privata in caso se dannosa alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
L’ordinamento giuridico italiano ha dunque operato quella che viene definita la costituzionalizzazione dei diritti sociali. Questa espressione altro non indica che il rilievo costituzionale conferito a tutte quelle proclamazioni di principio sulle quali si fondano i cosiddetti diritti sociali, anche se in molti casi queste affermazioni sono meramente programmatiche, necessitano, di leggi ordinarie per essere attuate.
Questo può dirsi certamente per il diritto al lavoro enunciato nel già citato art. 4.
I diritti sociali connessi al diritto al lavoro sono affermati e puntualizzati dagli artt. 35, 36, e 37.
Il primo contiene la previsione di una generica tutela del lavoro e quasi introduce la tutela più puntuale offerta dagli altri due.
L’art. 36, in particolare, ha un rilievo enorme non solo perché afferma con chiarezza il diritto alla giusta retribuzione, al riposo settimanale, alle ferie retribuite ed esige che la durata massima della giornata lavorativa sia stabilita dalla legge, ma perché, è stato considerato immediatamente operativo in quanto subordinato alle leggi ordinarie di attuazione per la giusta retribuzione, a differenza di altri articoli che garantiscono i diritti sociali senza renderne possibile l’immediato esercizio.
Dall’art. 39, infine, si desume implicitamente, ma con chiarezza, il diritto di fondare e di aderire ad organizzazioni sindacali. L’articolo in esame, infatti, afferma esplicitamente solo il principio della libertà della organizzazione sindacale. Il suo sviluppo è indice e manifestazione del livello di democraticità raggiunto da uno Stato e dell’attenzione che vuole rivolgere alla qualità delle politiche sociali da realizzare.

lalegge

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IL DIRITTO AL RIPOSO

 

Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

 

Questo articolo rappresenta un necessario completamento dell’articolo 23 e ne costituisce un elemento di rafforzamento e un chiarimento indispensabile.
La previsione esplicita di un periodo di riposo e di svago quale diritto irrinunciabile per ogni persona che lavori, diventa nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani un elemento di grande valorizzazione dell’individuo, che non può più essere considerato alla stregua di un mero fattore di produzione, ma rivalutato come persona umana nella sua interezza.
Il lavoro è uno strumento attraverso il quale la persona, oltre a garantire per sé e per la propria famiglia i necessari mezzi di sussistenza, esprime la propria personalità ed offre a se stesso l’opportunità per una crescita personale oltre che professionale. Se il lavoro avesse modalità e tempi disumani, e non consentisse alla persona di recuperare le energie spese, né di coltivare i propri affetti ed interessi, verrebbe meno alla sua funzione di strumento di promozione.
Il diritto al riposo e allo svago, dunque, sono strettamente connessi al diritto ad una ragionevole limitazione delle ore di lavoro.

 

Nella Storia

Nel mondo romano il concetto di tempo libero era definito dalla parola otium, che ha tutt’altro significato dal termine moderno.
L’otium indicava, infatti, un momento libero in cui potersi dedicare ad attività di svago, a interessi personali, tralasciando gli affanni della politica. Come ci ricorda Cicerone, giocando con la terminologia, l’otium è l’opposto del negotium, ossia degli affari; delimitava quindi la sfera personale dell’individuo.
Bisogna tuttavia ricordare che, se a livello terminologico e filosofico i Latini avevano dato una definizione del tempo libero, quest’ultimo era un lusso che potevano concedersi le classi elevate, mentre per il semplice artigiano o il dipendente statale non era prevista alcuna tutela in questo senso. Soltanto chi gestiva una propria attività occupazionale, come le cariche politiche, che nel mondo classico erano tutte autogestite e autofinanziate, poteva distribuire il proprio tempo tra affari e svaghi; da non dimenticare che nel mondo classico la schiavitù era una normale attività produttiva.
La divaricazione tra lavoratore autonomo e dipendente permane sia nell’epoca medievale che in quella moderna. Se infatti l’artigiano dell’età comunale riesce a bilanciare il suo tempo tra ars e attività ricreative, il dipendente dei grandi stati monarchici viene completamente assorbito dalla propria attività burocratica, tanto da dedicare completamente la sua vita e la sua opera al sovrano.
Nel XIX secolo, l’operaio era considerato un fattore della produzione e la sola cosa che contava era la sua forza lavoro. Il datore di lavoro non considerava affatto il problema dello svago del lavoratore o delle ferie, perché non era ipotizzabile che l’operaio dedicasse tempo ed energie ad un’attività inutile alla fabbrica. L’operaio lavorava fino a 13-15 ore al giorno ed il riposo notturno consentiva a mala pena il recupero delle forze per lavorare. Con il misero salario percepito, inoltre, l’operaio poteva permettersi solo un magro pasto quotidiano e non certo la possibilità di interrompere il lavoro per svagarsi o andare in ferie. Non solo non erano previsti né giorni di riposo né ferie ma, in caso di malattia, l’operaio, costretto ad interrompere il lavoro, doveva farsi sostituire a proprie spese, pena il licenziamento immediato. La regolamentazione della giornata lavorativa costituì la prima conquista della classe operaia. La prima legge in materia fu adottata nel 1832 in Inghilterra. Questa fissò a 10 ore la giornata lavorativa per i giovani al di sotto dei 10 anni. La successiva legge del 1844 ridusse a 6 ore e mezza, la giornata di lavoro dei bambini e fissò a 12 ore la giornata lavorativa per donne e giovani. Qualche anno dopo, nel 1847, una nuova legge estese a tutti i lavoratori adulti, uomini e donne, la giornata lavorativa di 10 ore.
Per il riconoscimento del riposo e soprattutto delle ferie retribuite, si dovette attendere la graduale evoluzione della legislazione sociale, che ebbe un notevole sviluppo con l’inizio del nuovo secolo.

 

Oggi

Alla base della disciplina che regola i ritmi delle prestazioni di lavoro (orario di lavoro, riposo, ferie annuali) si colloca l’esigenza di tutelare il lavoratore.
Storicamente è proprio in questo settore che si registrano i primi interventi legislativi, miranti sia alla tutela dell’integrità fisica che a quella morale del lavoratore, proprio perché, alla base della disciplina in esame, c’è l’esigenza di tutelare un bene di grande valore, ovvero quello della salute psicofisica della persona.
Tale enucleato si colloca in stretta connessione con l’art. 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che proibisce tassativamente ogni forma di schiavitù o servitù. Una lettura comparata dei due articoli acquista un rilievo emblematico al fine di stabilire delle regole universalmente accettate e rispettate in materia di lavoro.
Gli Stati che sottoscrivono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si impegnano ad impedire che i lavoratori abbiano un orario di lavoro superiore a un tetto massimo di ore settimanali, stabilite per legge ed assicurano un periodo di ferie periodiche retribuite che consenta un giusto riposo e svago.
È alla qualità del lavoro, ma soprattutto alla qualità della vita del lavoratore, che si rivolge questo articolo per evitare quello che, storicamente, ha costituito lo sfruttamento dei lavoratori connazionali ed immigrati, minorenni ed anziani, e che attualmente, purtroppo, in alcuni casi di non adesione o non applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani viene denominato il dumping sociale, ovvero lo scavalcamento di regole nazionali per mezzo di lavoro meno pagato, e meno tutelato all’estero. Ciò avviene nella misura in cui anche le più elementari regole in materia di tutela del lavoratore vengono disattese completamente.
Non mancano esempi di interi Stati ad esempio India, Taiwan, Malesia e altri, che per sanare il proprio debito estero e per rinvigorire la propria economia, ricorrono allo sfruttamento del lavoro, costringendo i gruppi sociali più deboli, come donne e bambini, a orari di lavoro disumani, in condizioni di quasi schiavitù.
In questi ultimi anni pare si stia sviluppando la prospettiva di una società permanentemente attiva, funzionante, cioè 24 ore su 24, 365 giorni all’anno: i lavoratori si alternerebbero a turni nell’ambito della struttura produttiva di appartenenza, dando vita ad un sistema sociale privo di sensibili differenze fra fasce temporali nell’arco della giornata, della settimana e dell’anno.
Le ragioni di tale disegno sono molteplici e spaziano da quelle di carattere economico, volte a consentire un più intenso sfruttamento degli impianti industriali, a quelle di carattere sociale, miranti a conseguire una riduzione della disoccupazione e a realizzare una distribuzione delle attività più diluita nel tempo che consenta ai consumatori e fruitori dei servizi un accesso più facile ai servizi stessi, siano essi di natura commerciale, culturale, ricreativa, di natura pubblica o di altro tipo.
Viene da chiedersi se vi sono ostacoli alla realizzazione di un simile modello di società tanto lontana dai ritmi naturali e, perché no, da abitudini e tradizioni profondamente radicate nella persona. Da qui emergono almeno tre ordini di ostacoli che si possono definire le frontiere della notte, delle abitudini alimentari e del fine settimana.
L’ostacolo della notte è legato indubbiamente ai ritmi naturali e biologici della vita stessa. Sarebbe giusto piegare tali ritmi alle esigenze della produzione odierna che, di notte, grazie agli sviluppi tecnologici, si può anche lavorare?
Secondo ostacolo: quello delle abitudini alimentari. Il pasto meridiano rappresenta, ancora verosimilmente, un elemento non trascurabile della vita di relazione sociale, da consumarsi con tranquillità, magari in famiglia.
Un’attività frenetica, caratterizzata da ritmi “innaturali” di certo non consentirebbe ai lavoratori di rispettare questa sana abitudine, a dire il vero, già troppo spesso dimenticata.
La terza ed ultima frontiera da varcare nella logica di attuazione di una società permanente è quella del fine settimana.
Si tratta di un ostacolo squisitamente culturale, profondamente radicato nella coscienza e nella organizzazione sociale. Al week-end sono devolute specialmente attività di socializzazione, di relazionalità affettiva, di svago e di divertimento. L’alternanza di giorni lavorativi e giorni non lavorativi risponde, infatti, all’esigenza di intercalare fasce temporali di attività e di riposo su un arco di tempo più lungo di quello della giornata.
Se poi si ricordano altre esigenze della persona e cioè quelle legate al diritto della libera pratica di una fede religiosa e di un culto, il tempo festivo è anche quello tipico della celebrazione religiosa, e ad esso dedicato, vissuto a livello personale e comunitario.
Difficili e lunghe battaglie sono state condotte in passato per raggiungere tali obiettivi, oggi c’è solo da sperare che, in ossequio ad un dubbio progresso, non si facciano passi indietro.
La problematica che si impone è quella di saper conciliare tempi di lavoro e tempi di riposo.
Per quanto riguarda i tempi di lavoro, si sta riflettendo sulla possibilità di diminuire l’orario lavorativo in generale. Questo avrebbe un doppio vantaggio: da un lato rendere possibile una distribuzione del lavoro a favore di più persone, evitando un eccesso per alcuni e la riduzione della disoccupazione per altri. Tali scelte potrebbero favorire l’attuazione di una politica che tenga conto di una più equa distribuzione delle risorse e dei redditi. Alla possibile diminuzione dei redditi di alcuni corrisponderebbe la disponibilità di reddito per chi non ne ha o l’aumento di quel reddito che non permette di soddisfare nemmeno le necessità di base.
Si tratterebbe, infatti, non di elevare i livelli di vita di fasce di popolazioni, ma di garantire un genere di vita per l’intera popolazione, orientandosi verso una visione organica e decentrata della organizzazione sociale nella quale, la divisione del lavoro non sia una fonte di lacerazioni e di squilibri, ma una cerniera di rapporti di solidarietà.
Il secondo vantaggio riguarderebbe la sfera privata della persona, quella che le permette di manifestare la propria personalità attraverso, i numerosi ruoli che ricopre: la maggiore disponibilità di tempo libero andrebbe a vantaggio dei momenti destinati alla propria crescita umana, alle relazioni familiari e interpersonali; alla possibilità di partecipare alla gestione della cosa pubblica, sia attraverso gli spazi della politica, che quelli dell’associazionismo. Partecipazione che esprime democrazia e pluralismo della società.

 

Nella Costituzione Italiana

All’art. 36 della Costituzione Italiana viene regolamentata espressamente la modalità in base alla quale il lavoro deve essere svolto, con limiti massimi di orario, e la previsione di un riposo fisso settimanale e di ferie annuali retribuite alle quali non si può rinunciare. Il legislatore italiano, apponendo la clausola dell’irrinunciabilità, prevede un elemento ulteriore di garanzia rispetto all’art. 24 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in quanto, mentre in quest’ultima il lavoratore ha un diritto al quale, almeno in teoria, potrebbe rinunciare, nel caso del dettato costituzionale italiano la rinuncia è tassativamente esclusa.
La previsione della irrinunciabilità del diritto alle ferie trova la sua giustificazione nel fatto che il lavoratore, soggetto debole del rapporto di lavoro, potrebbe essere indotto alla rinuncia dalla sua controparte, il datore di lavoro, magari a mezzo di minacce o ritorsioni.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA QUALITA’ DELLA VITA

 

  1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
  2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della sua stessa protezione sociale.

 

 

Questo articolo appartiene alla categoria dei diritti economici, sociali e culturali stabiliti allo scopo di proteggere i bisogni fondamentali della persona, esplicitandoli sotto forma di norme da proporre agli Stati come obiettivi da raggiungere. In particolare si riferisce innanzitutto al tenore di vita inteso come insieme delle possibilità economiche e loro modo di utilizzo, ricollegandosi ad altri diritti della Dichiarazione Universale: alla proprietà personale o in comune con altri, della quale non si può essere arbitrariamente privato (art. 17), alla sicurezza sociale (art. 22) e al diritto al lavoro (art. 23).
Questo articolo tutela e promuove una libertà fondamentale, la libertà dal bisogno, condizione indispensabile per tutte le altre libertà, e sancisce il principio della solidarietà.
Un’attenzione particolare è poi riservata alla maternità ed all’infanzia nell’ambito del principio più generale del diritto alla vita.

Nella Storia

In passato, il dovere alla solidarietà era inteso quasi esclusivamente come un fatto privato. Esistevano delle iniziative pubbliche volte a soddisfare le esigenze elementari delle classi più diseredate: ad esempio, nell’antica Roma venivano intrapresi lavori pubblici per assorbire manodopera disoccupata ed avvenivano distribuzioni gratuite di grano. Questi interventi dipendevano però esclusivamente dalla volontà dei governanti, mentre il diritto al lavoro e all’assistenza non erano codificati in nessuna legge. Tuttavia, nell’antichità, poiché la vita si svolgeva prevalentemente in una sfera comunitaria, chi per malattia, infortunio, vecchiaia o per altra ragione qualsiasi perdeva la possibilità di lavorare, trovava un appoggio sicuro nel gruppo familiare e nel vicinato.
Nel Medioevo si aggiunsero l’opera caritativa della Chiesa, un’organizzazione assistenziale basata sulle decime e sulle donazioni dei benefattori, e quella delle Corporazioni d’arti e mestieri, che provvedevano anche alla creazione di ospedali e di ospizi. Sul finire di quest’epoca, esplose con terribile violenza, il problema della povertà a causa di numerosi eventi: le politiche di potenza degli Stati e le guerre che immiserirono e spopolarono le campagne; lo sviluppo delle manifatture che, rendendo più razionale il processo produttivo, creò un esercito di disoccupati; il rialzo dei prezzi delle merci, che non fu accompagnato da corrispondenti aumenti salariali; l’affermarsi, entro le corporazioni di uno spirito esclusivista che limitava per molti le possibilità di lavoro. Vennero inoltre meno le istituzioni che fino a quel momento avevano animato le opere assistenziali. In molti Paesi infatti, la Riforma privò la Chiesa del suo patrimonio che, per definizione, era il patrimonio dei poveri; dove essa conservò i suoi beni, venne meno negli ecclesiastici, lo spirito caritativo che era stato per la Chiesa Medievale il maggior titolo di gloria. Negli stessi gruppi familiari, poi, sotto la spinta di un nuovo e talvolta feroce individualismo cominciò a vacillare quello spirito comunitario che cementava i suoi componenti ed era stato garanzia di solidarietà in ogni evenienza.
Fu in Inghilterra nel 1601, che venne promulgata la prima legge di assistenza sociale: Elisabetta I istituì una tassa i cui proventi dovevano servire per fondare degli ospizi per i mendicanti e per elargire sussidi in denaro. Anche se con l’andar del tempo lo spirito della legge fu tradito perché cambiò la destinazione dei ricoveri che divennero luoghi di segregazione e di pena, nella stessa legge si trova il primo bagliore dello Stato Sociale.
Un impulso vigoroso verso questa concezione venne dal solidarismo operaio. Verso la metà del Settecento, in Inghilterra si formarono le Trade Unions, i sindacati, la cui funzione consisteva nel favorire reciproco aiuto tra i lavoratori: disponevano infatti di un fondo, costituito con i versamenti periodici degli iscritti, cui si attingeva per assicurare il mantenimento dei soci che venivano privati della possibilità di guadagno per infortunio, malattia, disoccupazione, vecchiaia, ecc.. Analoghe istituzioni si costituirono in Italia, in Francia ed in altri Paesi. Con il tempo, queste associazioni operaie aggiunsero alle funzioni di mutuo soccorso, un’azione rivendicativa sul piano economico e politico. Anche se duramente avversate, a poco a poco imposero la loro presenza; nel 1824 furono riconosciute in Inghilterra, nel 1864 in Francia. Il mutuo soccorso non poteva certo dare ai lavoratori una vera sicurezza; attraverso la protesta operaia, le stesse associazioni riuscirono a crescere con l’evolversi della società industriale incidendo sulle sue strutture.
Così, tra il 1883 e il 1889, in Germania furono istituite dallo Stato le assicurazioni obbligatorie contro i rischi di malattia, di infortunio, di invalidità e di vecchiaia, e l’esempio fu rapidamente seguito in tutti gli altri Paesi.
Relativamente alla tutela della salute, va ricordato che sia presso gli Egizi che presso i Greci esistevano centri di cura. Nel 362 d.C. a Roma fu istituito un ospedale pubblico.
Nell’Europa Altomedievale gli unici ospedali erano quelli annessi ai monasteri, ma dopo il Mille, con la rinascita dei centri urbani, quasi ogni città ebbe il suo ospedale. Nel XIII sec. mentre l’ospedale arabo Al Mansur, al Cairo, disponeva di spaziose corsie rinfrescate da fontane, dove i malati erano intrattenuti da musicisti e cantastorie; più o meno nella stessa epoca, all’Hotel Dieu di Parigi si costringevano sei malati in un letto.
Per quanto riguarda la maternità, fin dai tempi più antichi è stata rispettata e tutelata, in primo luogo per l’importanza che le veniva riconosciuta da tutte le religioni. Non sempre però l’infanzia è stata tutelata: l’azione di Erode ne è purtroppo solo l’esempio più clamoroso.
Nel 1948 con la Dichiarazione Universale, questi diritti sono stati riconosciuti ufficialmente dalla maggior parte degli Stati. Affermazione notevolmente rinforzata nel 1966 con il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, ratificando il quale, gli Stati membri dell’ONU ne accettano gli obblighi che vengono enunciati, si impegnano ad armonizzare le proprie legislazioni interne ai suoi principi e a presentare regolarmente dei rapporti in merito ai progressi compiuti in questo senso.
Circa l’infanzia va ricordata la Dichiarazione dei Diritti del Bambino, adottata all’unanimità nel 1959 dall’Assemblea Generale ONU, per affermare la validità dei diritti umani anche per i bambini oltre al diritto ad una appropriata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita, a godere di opportunità e facilitazioni per uno sviluppo sano e normale. Da questa è derivata la più impegnativa Convenzione internazionale sui diritti all’infanzia del 1989.

 

Oggi

Le profonde trasformazioni che si sono realizzate nei secoli nell’organizzazione sociale, hanno portato ad una nuova e più ampia concezione della solidarietà e della giustizia sociale, ed alla piena consapevolezza che lo Stato deve tutelare, anzi promuovere, la libertà fondamentale degli individui e dei gruppi, prima tra tutte la libertà dal bisogno. È importante notare che il bisogno, in questa nuova concezione, non si riconosce soltanto laddove esiste una situazione di indigenza, ma anche laddove mancano le condizioni di uno sviluppo culturale dei singoli e delle collettività. Non è soltanto un diritto al pane, alla casa, alle cure, che viene ora riconosciuto, ma altresì il diritto ad una istruzione che sia adeguata alle attitudini della persona, a un lavoro che sia confacente al suo talento, ad una vita sempre più umana. Questo è lo Stato Sociale che si esprime attraverso due ordini di istituti: previdenziali e assistenziali. Mentre i primi riguardano solo determinate categorie di lavoratori dipendenti e le loro famiglie, i secondi riguardano tutti i cittadini. Gli istituti previdenziali offrono le loro prestazioni in determinate occasioni e cioè in casi di infortunio, malattia, invalidità, ecc., quelli assistenziali, invece, offrono le loro prestazioni in qualsiasi situazione di bisogno. Altra differenza tra i due tipi di istituti riguarda il loro finanziamento: gli istituti previdenziali si fondano sulle assicurazioni obbligatorie e sono perciò in gran parte finanziati dai lavoratori stessi e dai datori di lavoro, mentre gli altri sono finanziati dallo Stato, dalle Province e dai Comuni.
Per quanto riguarda la tutela della maternità e dell’infanzia, in molti Paesi è stata avviata una legislazione specifica che prevede, in linea di massima, l’immediato allontanamento della donna dal posto di lavoro non appena dichiarato lo stato di maternità, se esso comporta il rischio di intossicazione professionale o comunque possa ledere il feto; il divieto di adibire la donna a lavori faticosi negli ultimi tre mesi di gestazione; l’astensione dal lavoro nelle settimane immediatamente precedenti e successive al parto. Si garantisce la conservazione del posto di lavoro e la relativa remunerazione, e si provvede anche all’elargizione di “assegni di natalità”.
In Italia, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (OMNI) si occupa delle donne non lavoratrici e prive di assicurazioni, provvede all’apertura di consultori materni e pediatrici, di asili nido. Rivolge una speciale cura ai minori psichicamente e/o fisicamente anormali per i quali è previsto il ricovero in appositi istituti.
A livello internazionale, le Nazioni Unite, grazie al lavoro di programmi, istituzioni e agenzie specializzate quali la Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS), l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e l’Organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO), si sforzano di migliorare la qualità della vita delle persone nel mondo attuando i dettami dell’art.25 della Dichiarazione Universale realizzando programmi d’assistenza per migliorare il tenore di vita, le condizioni d’igiene, l’istruzione, i servizi educativi ed i numerosi altri aspetti della vita dei popoli.
Anche la Commissione dei diritti umani, il principale organo dell’ONU che si interessa dei diritti umani, si occupa di raggiungere gli obiettivi dell’articolo 25 con l’analisi che svolge, annualmente, per verificare il livello di attuazione dei diritti economici, sociali e culturali, individuando gli ostacoli alla loro piena realizzazione e suggerendo i possibili mezzi per superarli.
Riguardo all’infanzia, nel 1946 l’ONU ha istituito un Fondo per l’infanzia, l’UNICEF, che si interessa esclusivamente dei diritti e del benessere dei bambini nel mondo. Nel 1989 è stata approvata, la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, che protegge il diritto alla vita del bambino, stabilendo l’obbligo degli Stati di assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo; ribadisce il diritto del bambino alla salute e ad avere accesso ai servizi sanitari e medici, sottolineando le cure sanitarie primarie e la prevenzione; stabilisce il diritto del bambino all’assistenza sociale e ad un livello di vita adeguato, la responsabilità primaria dei genitori ad assicurare tale livello di vita e l’obbligo dello Stato, quando necessario, di assistere i genitori in questa responsabilità.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana negli articoli 37 e 38, stabilisce rispettivamente che “le condizioni di lavoro [della donna] devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre del bambino una speciale adeguata protezione” e che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati con mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

lalegge

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IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE

 

  1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere ugualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
  2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
  3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.

 

 

L’istruzione è stata ed è tuttora un elemento fondamentale della società.
Già nel IV secolo a.C. Aristotele ne sottolineava l’importanza affermando che compito principale del legislatore era quello di rivolgere la propria attenzione soprattutto all’istruzione, contribuendo così a qualificarla come un’esigenza basilare della società. Scopo prioritario dell’istruzione è infatti quello di trasmettere all’individuo i valori e le conoscenze accumulate nel corso dei secoli, quindi di formare l’individuo e porlo in condizioni di svolgere un ruolo utile nella società, di sviluppare una sua personalità e un senso di responsabilità e rispetto nei confronti dell’ambiente sociale e fisico in cui vive.
A differenza dei diritti cardine della Dichiarazione Universale quali la libertà e l’uguaglianza, a cui si ispira, il diritto all’istruzione non è mai stato riconosciuto universalmente come un diritto della persona prima dell’anno 1948, anno della stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

 

Nella Storia

Favorita e promossa in tutte le società, l’istruzione e la struttura del sistema educativo hanno subito delle profonde variazioni a seconda dell’evoluzione sociale ed economica delle diverse società. Le culture tradizionali affidavano alla trasmissione orale il passaggio delle conoscenze d’accordo con le esigenze della stessa società. L’intero ambiente veniva considerato una scuola, e, solo in alcuni casi in seguito, vi furono maestri o precettori.
Nel Medioevo si assiste ad un vero e proprio consolidamento pedagogico con l’istituzione delle arti liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Queste arti costituirono per tutto il Medioevo la base propedeutica di ogni insegnamento e grazie a questo sistema gerarchico di acquisizione del sapere, il monaco Alcuino riuscì ad organizzare le famose scholae palatium, le scuole del palazzo reale, durante l’impero di Carlo Magno.
L’esigenza di introdurre la scuola dell’obbligo, al fine di assicurare un’istruzione per tutti, emerge nel XVIII secolo sulla scia del pensiero riformistico di Lutero, il quale aveva invitato i Principi a dar vita ad un sistema scolastico di Stato, affinché la scuola integrasse l’opera educativa della famiglia. Nel 1643 Ernesto Debonnaire, duca di Gotha, emanò un editto che prevedeva per la prima volta l’obbligo scolastico per tutti i fanciulli in età compresa tra i 5 e i 12 anni, e nel 1716 Federico Guglielmo I rese obbligatoria in Prussia l’istruzione elementare. In Inghilterra, a differenza dell’evoluzione generale sul continente, il sistema educativo si basava su un netto rifiuto di qualsiasi forma di coercizione, a tutela dell’intangibilità della libertà personale e domestica.
Durante la Rivoluzione Francese, nelle assemblee si svolse il primo dibattito sul problema dell’intervento dello Stato nel settore dell’istruzione. Dopo un aspro confronto tra prospettive differenti, circa l’obbligo scolastico ed il ruolo dello Stato, si arrivò ad affermare che “per l’interesse pubblico, tutti debbono essere obbligati”, e che l’obbligo scolastico costituiva non solo un servizio reso dallo Stato alla collettività, ma soprattutto un compito dello Stato rivolto allo scopo primario di formare i cittadini.
Nel sec. XIX questi principi si affermano con maggior vigore e alcuni Stati introducono l’obbligatorietà dell’istruzione nei propri ordinamenti.
In Italia, il pensiero illuministico recepì e fece proprie tali istanze, configurando l’istruzione come compito dello Stato. Tuttavia, nonostante la diffusione dell’istruzione fosse auspicata e raccomandata dai pensatori illuministi, non si parlò di introdurre negli ordinamenti giuridici un preciso obbligo. Con la legge Casati del 1859 si arriva ad una prima forma di obbligatorietà stabilendo la gratuità dell’insegnamento primario e l’obbligatorietà del grado inferiore dell’istruzione elementare della durata di due anni.
Con la legge Coppino del 1876 venne ulteriormente affermato il concetto di obbligatorietà dell’istruzione elementare, non solo aumentando il periodo in cui sussisteva l’obbligo, ma anche prevedendo un sistema di formazione degli elenchi degli obbligati. Nonostante questi interventi, alla fine dell’Ottocento la situazione della scolarizzazione era ancora sconfortante: il divario tra città e campagna era enorme e, soprattutto nelle regioni del sud, il tasso di analfabetismo permaneva a livelli inaccettabili.
Le questioni connesse alla scolarizzazione trovano una via di soluzione solo con la Riforma Gentile, con la quale fu stabilito il principio dell’obbligo dal 6� al 14� anno di età e furono sottoposti a tale obbligo anche i fanciulli ciechi. Oggi i Testi Unici fondamentali della organizzazione scolastica fanno ampio riferimento a tale riforma, a riprova della sua serietà ed incisività.

 

Oggi

L’istruzione non è solamente un’esigenza e un diritto della persona, ma anche e soprattutto un interesse della società perché l’istruzione dà la possibilità all’individuo di essere responsabile nella vita sociale e di partecipare attivamente alla costruzione di una società libera in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra i popoli.
L’aspetto che emerge con più nitidezza riguardo al problema dell’istruzione, è certamente il divario esistente tra la situazione scolastica dei cosiddetti Paesi sviluppati, nei quali l’analfabetismo è praticamente scomparso nel corso dell’ultimo secolo, e il quadro educativo esistente nei Paesi in Via di Sviluppo. Qui, circa un miliardo di uomini e, soprattutto donne, versano in uno stato di analfabetismo totale e, oltre cento milioni di bambini, non hanno alcuna speranza di ricevere un’educazione, aspetto questo maggiormente preoccupante data l’importanza dei giovani per il futuro di un Paese.
L’analfabetismo impedisce una presa di coscienza di quelle misure che favoriscono la qualità della vita. È importante ricordare anche che l’educazione e l’accesso ai livelli di istruzione da parte della donna sono stati fortemente trascurati sebbene sia stato dimostrato che un miglioramento dell’educazione femminile andrebbe a vantaggio dell’intera organizzazione sociale.
Nonostante l’importanza dell’istruzione, alcuni Paesi non sembrano riconoscerle questo ruolo cardine di formazione favorendo altri settori rispetto ad esso. Così, in alcuni casi, si verifica che $20.000 sono destinati alla formazione di un soldato contro $350 destinati all’istruzione di un bambino.
Per combattere questa situazione deplorevole, nel 1990, a Jomtien, in Tailandia, si è tenuta la prima Conferenza Mondiale riguardante l’educazione per tutti, organizzata da quattro Agenzie internazionali tra le quali l’UNESCO. Questa, nel 1990, ha lanciato un Piano a medio termine per il periodo 1990-1995 i cui due obiettivi cardine sono: la sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale e delle autorità competenti in materia di istruzione e l’intensificazione degli sforzi per combattere l’analfabetismo. Due sono i messaggi contenuti nel Piano: il primo riguarda l’importanza attribuita all’istruzione come fattore decisivo nella formazione dell’avvenire degli individui ed il secondo riguarda la necessità di cooperare per assicurare il diritto all’istruzione. Anche la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia dell’ONU del 1989 pone l’accento sul problema della cooperazione internazionale affermando che gli Stati devono incoraggiarla e favorirla per contribuire ad eliminare l’ignoranza e l’analfabetismo nel mondo e facilitare l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche ed ai metodi di insegnamento moderni.
Gli artt. 28 e 29 della Convenzione sostengono che l’obiettivo principale della scuola è quello di infondere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali contenute nella Carta delle Nazioni Unite. Tale rispetto, imparato attraverso lo studio dell’educazione civica nella scuola, permetterà la maturazione di un senso etico come fondamento dei rapporti tra cittadini, la promozione di una concreta e chiara consapevolezza dei problemi della convivenza umana e guiderà l’alunno a un comportamento civico e socialmente responsabile. L’educazione ai diritti umani, anche come dialogo tra alunni ed insegnanti, unisce questi ad altre culture e civiltà e prepara i giovani alla partecipazione cosciente per l’impostazione di un ordine economico internazionale più giusto, impostando il principio dell’uguaglianza delle possibilità per tutti gli esseri umani, senza distinzioni dì razza, fede politica e religiosa e contribuendo alla formazione di una Comunità Mondiale.

 

Nella Costituzione Italiana

La Costituzione Italiana dedica attenzione alla questione dell’istruzione sotto vari profili. In particolare, per ciò che attiene al problema dell’obbligo scolastico, l’art. 34 ha sancito che la scuola è aperta a tutti e che l’istruzione inferiore, impartita per almeno 8 anni, è gratuita ed obbligatoria.
Per quanto riguarda la gratuità, la Costituzione supera le norme internazionali perché oltre ai livelli elementari previsti da queste ultime, comprende anche la scuola media inferiore. L’articolo prosegue affermando che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti negli studi e che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze che devono essere attribuite per concorso. Oggi, con successive disposizioni legislative l’obbligo all’istruzione è esteso anche ai soggetti disabili e vengono previsti servizi di sostegno.
L’obbligo è adempiuto sia attraverso la frequenza ad una scuola pubblica, sia con la frequenza ad una scuola privata o paterna. Questa disposizione corrisponde al precetto costituzionale che garantisce la libertà delle scelte educative dei genitori (art. 30).
La questione principale posta dall’art. 34 riguarda il modo di intendere il precetto della gratuità e la sua correlazione con la prescrizione dell’obbligatorietà. Ci si è chiesti infatti se tale gratuità debba essere limitata all’attuazione del servizio dell’insegnamento o, piuttosto debba comprendere altre prestazioni ad essa connesse.
La dottrina dominante ha affermato l’esistenza di un preciso obbligo per lo Stato di predisporre di sufficienti locali, libri e mezzi, anche di trasporto, per consentire a tutti l’accesso alla scuola. In questo modo sarebbe possibile assicurare non soltanto l’effettiva gratuità della scuola dell’obbligo, ma anche l’effettivo trattamento paritario di tutti gli alunni. Molti autori si sono infatti soffermati su questo punto affermando che una corretta interpretazione della Costituzione imporrebbe di concedere, ai più meritevoli e bisognosi, non solo borse di studio, ma anche sussidi alle famiglie.
Tuttavia, a fronte di siffatto orientamento dottrinale, l’attuazione dei precetti costituzionali è stata soltanto parziale. La gratuità, secondo la giurisprudenza costituzionale, importerebbe esclusivamente l’onere, per lo Stato, di apprestamento dei locali e del personale insegnante. Per coloro che si trovano in stato di bisogno soccorrono gli enti di assistenza. La reazione della dottrina a siffatto orientamento giurisprudenziale è stata nettamente negativa ribadendo il principio secondo il quale lo Stato dovrebbe fornire quelle prestazioni che si riferiscono, in via diretta ed esclusiva, all’attività scolastica.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA CULTURA

 

  1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, a godere delle arti e a partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici
  2. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei suoi interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore

 

L’articolo si riferisce esplicitamente al dovere di ogni persona di prendere parte attiva alla vita culturale della comunità a cui appartiene, proprio per esercitare il diritto corrispondente a “godere” di ciò che è da essa prodotto, sia per il bene comune che per il progresso scientifico.
Tutela ugualmente le motivazioni, il significato e gli interessi di quanto venga prodotto a titolo individuale come espressione e come fattore di umanizzazione e di progresso per sé e per gli altri.
La cultura, come patrimonio intellettuale e materiale della persona, variabile nei suoi elementi costitutivi di valori, simboli, linguaggi, modelli di comportamento e tecniche mentali e corporee, secondo le varie epoche storiche, svolge diversi compiti ed assume funzioni precise in relazione alle forme di conoscenza e di sapere proprie della persona, del gruppo e della società in generale.
Più specificatamente, per cultura s’intendono le istituzioni, gli usi, le opere d’arte, i rituali e soprattutto le idee e le credenze di una pluralità di persone.
L’importanza della cultura si percepisce nel momento in cui si analizzano le sue funzioni, che possono essere sia sociali che psichiche. Sul piano sociologico, funzione essenziale della cultura è quella di riunire in una collettività specifica una pluralità di persone le quali, proprio grazie ad essa, possono comunicare tra loro, riconoscere gli interessi comuni, le divergenze e le opposizioni e sentirsi membri di una stessa entità. Sul piano psicologico, invece, la cultura svolge una funzione formativa delle personalità individuali: grazie ad essa, l’individuo può adattarsi secondo la propria specificità ai modelli proposti dalla società. Infine, un’ultima funzione, più generale e fondamentale, è quella che permette e favorisce l’adattamento della persona e della società all’ambiente e al complesso delle realtà con le quali deve convivere. Tutto ciò evidenzia perché la cultura debba essere garantita come diritto imprescindibile per ogni individuo.
La partecipazione alla vita culturale della comunità diviene un momento di particolare rilievo all’interno dell’economia globale di una determinata nazione. Di qui l’inalienabilità di tale diritto da garantire pienamente a tutta la popolazione, rendendo possibile una effettiva informazione sull’ampio ventaglio di mezzi e strumenti attraverso i quali prende forma la vita culturale.
Importante, a riguardo, è l’interazione tra cultura e scienza.
L’articolo in esame utilizza il termine di cultura limitatamente a quanto osservabile in una società considerata sotto il profilo del suo sistema culturale e di quanto esso possa produrre in una prospettiva, universale, sia locale che comparata.

 

Nella Storia

A lungo, nei secoli, la cultura ufficiale è stata un privilegio di ristrette minoranze.
Fin dall’antichità i greci ed i romani la praticavano come attività d’élite.
La cultura, intesa come mezzo di perfezionamento individuale, aveva, come condizioni fondamentali, l’agiatezza economica, il tempo libero e l’esenzione da attività lavorative fisiche.
Per lunghi periodi, i produttori di cultura – poeti, attori, musicisti – sono stati difesi dai mecenati: la cultura, che alimentava lo spirito di casta nobiliare, era prodotta ed insegnata da chi era trattato quasi come servo.
Solo con l’Umanesimo ed il Rinascimento fiorirono le prime culture cittadine in opposizione alla cultura clericale. Fino all’Illuminismo la cultura restò appannaggio di uno status di minoranze sociali. Sarà poi la borghesia a tentare di dominare il mondo culturale per meglio affannarsi e sostenere il proprio potere economico. Cultura e civiltà divennero sinonimi, intese però solo come portatrici dei valori della borghesia stessa.
È su questa base che i selvaggi extra-europei venivano combattuti nel XVIII secolo. Infatti, scevro da ogni intenzione di integrazione, l’uomo europeo, soprattutto in America Latina, mantenne un atteggiamento di totale rifiuto nei confronti delle lingue e delle tradizioni proprie delle popolazioni indigene sottomesse, le quali non godevano di alcun diritto, men che meno del diritto di preservare e di godere della propria cultura.
Importante è stato l’apporto di Marx ed Engels nel XIX secolo: si opposero a convinzioni e comportamenti ormai radicati nella società occidentale. Le loro critiche si fondavano sulla divisione tra lavoro fisico ed intellettuale sulla base di criteri gerarchici ed economici e sulla convinzione che l’attività artistica comportasse l’esenzione da altre attività professionali. Accusavano inoltre la borghesia di puntare più all’affermazione di un ordinamento economico che a quello di un patrimonio di pensiero.
Le donne assunsero iniziative culturali quando riuscirono, almeno transitoriamente, a liberarsi dalla tutela e dalla autorità maschile.
Le attività culturali delle donne erano tollerate se appartenevano a classi sociali alte. Le possibilità di educazione della popolazione femminile di tutte le classi, tenute artificiosamente ad uno scarso livello, frenò la crescita del loro potenziale creativo.
Gli apporti culturali delle donne, che avrebbero varcato i confini nazionali o prodotto effetti di una rottura strutturale, da Saffo a Madame De Stael, furono sempre osteggiati.
Nel XX secolo, con il diffondersi della cultura di massa e lo sviluppo del progresso scientifico sono aumentati, in genere, i vantaggi dell’accesso ai beni della cultura, intesa in senso ampio, da parte delle popolazioni. Purtroppo rimangono fasce sociali emarginate che potranno essere riscattate solo e proprio da una più ampia partecipazione alle conquiste dei diversi percorsi culturali e scientifici.

 

Oggi

Alcuni sociologi hanno definito il mondo odierno come un villaggio globale volendo sottolineare con questa espressione, la crescente omogeneizzazione ed integrazione mondiale sia sotto il profilo economico che sotto il profilo politico e culturale, avvenuto per la diffusione di una cultura unica e dominante attraverso l’uso dei mass-media a scapito di una originalità e creatività culturale.
Frutto delle recenti trasformazioni in campo tecnologico e comunicativo è stata anche la riduzione delle distanze tra Paesi lontanissimi, portando alla ribalta l’esistenza di altre culture, ricche di un patrimonio di valori autoctoni da conoscere e da rispettare come parte dell’intera umanità.
In molti paesi, accanto alla cultura colta ed ufficiale va acquistando rilievo, la cultura autoctona presente sullo stesso territorio e relegata quasi sempre al nascondimento o all’emarginazione per motivi di stretto interesse di potere o di potere economico.
Questo doveroso affiancamento di culture diverse e plurali come appartenenza ad uno stesso Stato, inteso come organizzazione politica anche se differenziato per etnie ed articolato a volte in nazionalità, dovrebbe condurre alla nascita di vere e proprie società multiculturali.
Al loro interno e a partire dalla cultura di ciascuno e dei vari gruppi sociali, si può garantire lo sviluppo necessario delle capacità personali, sia attraverso il libero accesso alla cultura del proprio Paese sia attraverso una partecipazione responsabile e creativa alla produzione culturale dello stesso e al suo progresso scientifico.
Compito delle società è quindi quello di preservare queste diversità, pur mantenendo le dimensioni dell’unità politica, economica e sociale, mettendo l’accento sulla ricchezza costituita dalla pluralità di culture ed il conseguente diritto alla diversità.
Emerge la necessità di proteggere le minoranze, evitandone, da una parte la marginalizzazione attraverso una eccessiva difesa della loro cultura, e, dall’altra, l’effetto fusione con la cultura dominante, processo questo che porterebbe a lungo andare allo scempio delle diversità culturali.
Il metodo forse più adatto per superare questa forte difficoltà potrebbe ritrovarsi nell’educazione interculturale atta a creare orientamenti di apertura e di produzione culturale diversificata propria di una convivenza basata sui criteri del pluralismo e della democrazia.

 

Nella Costituzione Italiana

Nei principi fondamentali contenuti nella Costituzione, non vi è un riferimento esplicito a quanto dichiarato nell’articolo della Dichiarazione Universale in oggetto, si affermano tuttavia dei principi ad esso correlati ed essenziali. Il legislatore ha considerato importante tutelare non solo le minoranze linguistiche, ma anche tutte le confessioni religiose, essendo lingua e religione due elementi imprescindibili della cultura di una qualsiasi comunità.
Per quanto riguarda le minoranze linguistiche presenti in alcune regioni italiane, l’art. 6 della Costituzione ne prevede la tutela con leggi apposite. Infatti, i successivi Statuti regionali speciali della Valle d’Aosta, del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, contengono, in grado diverso e in relazione alla differente rilevanza dei gruppi etnici minoritari interessati, disposizioni dirette soprattutto a salvaguardare l’uso della lingua materna nell’insegnamento scolastico, nella scuola elementare o anche nella scuola media, nei rapporti con i pubblici uffici ed anche nella toponomastica.
L’articolo 6, risponde, del resto, al principio di uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla razza e dalla lingua enunciato nell’art. 3 della stessa Costituzione.
Tutto questo al fine di evitare la sottomissione o la limitazione delle minoranze agli interessi della maggioranza nazionale.
In tema di religione l’art. 8 recita: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge“. Tale espressione comprende tanto la religione cattolica, maggiormente diffusa in Italia, quanto i culti e le religioni non cattoliche, garantendo a tutte le comunità religioso-culturali un trattamento paritario davanti alla legge.
Il patrimonio culturale di cui sono portatrici le minoranze nazionali viene protetto dalla Costituzione all’art. 9, quando afferma che: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica“. L’inserimento di tale disposizione nel nucleo fondamentale della Costituzione è un chiaro segno della rilevanza dell’elemento culturale quale collante di ogni società, prodotto e punto di riferimento di ogni collettività.

lalegge

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IL DIRITTO ALLA SICUREZZA INTERNAZIONALE

 

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati

 

L’enunciazione dei diritti e delle condizioni di libertà per ogni persona, implica e reclama l’esigenza di prestare attenzione al contesto in cui questi possono e devono essere applicati.
Si crea così, per i singoli individui, un nuovo diritto che è quello di poter accedere ad un ambiente sociale e internazionale che consenta l’effettiva espressione della libertà e l’operatività dei diritti.
La Dichiarazione Universale non resta, in questo articolo, un enunciato teorico; essa vuole cercarne i presupposti per una concreta applicazione. Si appella ad un ordine sociale e internazionale, come la premessa e il punto di arrivo per un mondo che nella sua globalità, voglia farsi carico della piena realizzazione dei diritti per ogni persona.
Le condizioni ambientali sono necessarie proprio perché ogni persona si esprima nella molteplicità delle sue appartenenze sociali come figlio-figlia; studente-studentessa; lavoratore-lavoratrice; e anche come membro di associazioni culturali e politiche a livello locale, nazionale ed internazionale. È in queste diverse appartenenze, che i diritti e le condizioni di libertà della persona, devono essere tutelati concretamente.

 

Nella Storia

L’esigenza di migliorare la qualità di vita della persona, è stata presente in ogni tempo e avvertita da ogni società. La modalità con cui è stata avanzata e soddisfatta, ha dato luogo nei secoli, alle diverse forme di convivenza umana. Ha spesso ispirato i principi dell’azione politica come ideale umanitario, motivando relazioni ed alleanze tra società e Stato.
Nell’età classica e per tutto il Medioevo, tale esigenza ha permesso e regolamentato il rapporto dello Stato con le persone straniere e con quelle facenti parte di una minoranza etnica o religiosa all’interno della stessa società.
Solo in epoca moderna, gli Stati, volendo attribuire importanza e difendere la propria sovranità e, di conseguenza assicurare il rispetto di quella degli altri Stati, hanno agito attivamente per la promozione di principi umanitari, trasformati gradualmente in diritti umani. In questo modo hanno esercitato anche una protezione diplomatica nei confronti dei propri sudditi all’estero o per solidarizzare con persone legate alla popolazione nazionale da particolari vincoli di ordine etnico, linguistico o religioso.
Solo dal secolo scorso, però, si sono avanzate ipotesi di alleanze strategiche e/o stabili per il mutato clima socio-politico e per il perseguimento di obiettivi ed interessi specifici.
Durante la seconda guerra mondiale, per le aberrazioni ed i crimini commessi, si è determinata la necessità di moltiplicare e di intensificare gli sforzi per realizzare una più stretta cooperazione e solidarietà internazionale.
Si è così messa in atto una vera e propria azione internazionale per promuovere la difesa e la tutela dei diritti dell’uomo, a garanzia del loro rispetto anche nei singoli paesi e nelle altre nazioni. I redattori della Carta delle Nazioni Unite hanno incluso tra i fini dell’organizzazione quello di “conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico sociale e culturale o umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Entra così a far parte della Dichiarazione Universale “il diritto ad un ordine sociale e internazionale” nel quale esercitare e realizzare i diritti umani.
Tale diritto è strettamente connesso con la nuova concezione della realtà internazionale derivata dalla Costituzione delle Nazioni Unite.
Se il diritto romano si era preoccupato di fissare le regole dei rapporto tra l’uomo e le cose, e il diritto medioevale, evolutosi sino allo scorso secolo, aveva regolato il rapporto tra le persone, la terza epoca del diritto, quella contemporanea, tuttora in piena evoluzione, si è preoccupata di fissare le condizioni affinché ogni diritto potesse diventare atto.

 

Oggi

La previsione e l’assunzione di un impegno per un ordine sociale e internazionale al fine di garantire la realtà dei diritti umani, costituisce un modo importante per raggiungere un’intesa su affermazioni che possano esprimere gli ideali comuni di Stati diversi tra loro, quanto a tradizioni giuridiche, sistemi politici e fedi religiose. Queste differenze non esistono soltanto tra Stati occidentali e Stati di democrazia popolare o socialisti, tra mondo cristiano e mondo islamico, tra tradizioni anglosassoni di “common law” e tradizioni continentali di “diritto civile”, tra sistemi politici ed organizzazioni tradizionali. Si danno anche e spesso, grandi differenze tra Paesi che hanno una storia comune, per esempio, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna o tra Paesi dell’Europa Occidentale.
Vanno anche sottolineate le differenze di condizione economica e sociale tra gli Stati che sono certamente meno onerose per Paesi a livello di sviluppo avanzato, rispetto a Paesi meno avanzati.
In mancanza di un apparato centrale capace di garantire l’ordine internazionale come sistema stabile, è necessario che ci siano delle condizioni precise e degli interessi comuni, perché gli accordi siano normalmente osservati ed abbiano effettivo vigore nei rapporti tra gli Stati. Spesso l’interesse può essere quello di salvaguardare relazioni amichevoli e di cooperazione, grazie alle quali si possono intensificare anche i rapporti di carattere economico e commerciale.
La questione fondamentale, però, risiede nell’assicurare l’osservanza degli accordi stabiliti perché le relazioni e gli scambi tra i vari Stati, siano basati su fattori determinanti per una convivenza democratica. Questa dovrebbe esprimersi a livello di comunità mondiale intesa come struttura permanente delle relazioni umane. Infatti non va considerata come un insieme di Stati, organi transeunti non sempre esistiti e non destinati ad esistere sempre.
Politicamente, l’indipendenza degli Stati va perdendo il suo significato originario di indiscussa sovranità, per assumere quello di semplice potere locale della comunità mondiale.
Ciascuno Stato è ormai parte integrante di alleanze o di unioni federative. La sua indipendenza è diventata interdipendenza che si fonda su un delicato equilibrio internazionale. Il processo di unificazione tra gli Stati è continuo per necessità di alleanze politiche, ma anche per l’integrazione dei sistemi economici.
Il diritto muta nel suo contenuto secondo le diverse condizioni in cui è esercitato o goduto, ogni potere risulta definibile solo tenendo conto dell’intero equilibrio mondiale. Oggi, il massimo della libertà coincide con il maggior numero di rapporti di relazioni; l’assenza di libertà coincide con il vivere isolati e senza relazioni.
Si presentano nuovi modi di rappresentanza dei popoli che hanno una caratteristica comune, da una parte quella di essere organi interstatali cioè sorti tra Stati indipendenti e in base a designazioni fatte dai singoli Stati, dall’altra parte, quella di essere organi rappresentativi di una unità dei popoli, dalla quale anche i singoli Stati si sentono vincolati.
Il problema dell’allargamento dei consensi è reale e centrale in modo particolare di fronte ai gravi problemi che si presentano alla comunità mondiale e che non possono più essere risolti su scala nazionale, ma che vanno affrontati da tutta l’umanità. A riguardo, è importante riflettere sulla formulazione del nuovo diritto di ingerenza umanitaria che consente all’organizzazione internazionale di intervenire nella politica interna di uno Stato quando si tratti della violazione di diritti fondamentali della popolazione. Questi vanno difesi anche di fronte allo Stato stesso. Tale diritto, comunque, viene attuato nel pieno rispetto della sovranità dello Stato in questione; tuttavia, rimane aperta la problematica legata ai limiti della stessa possibilità del diritto all’ingerenza, per evitare che possa scadere in una nuova forma di sopraffazione.
Va anche sottolineato il disegno dell’Unione Politica Europea come costruzione di una nuova forma di rapporti interstatali.
In questa linea, già è stato fatto il tentativo di creare organizzazioni sovranazionali con poteri distinti da quelli degli Stati membri, determinando una loro incidenza sul ruolo giocato dagli Stati.
Si auspica per un futuro non lontano, che l’organizzazione internazionale acquisti una autorità propria con poteri specifici, ridisegnando gli equilibri attualmente esistenti.
Il ruolo delle Nazioni Unite va, quindi, ripensato e rimodellato tenendo conto di quanto già fatto attraverso tutte le dichiarazioni approvate dall’Assemblea Generale, le proclamazioni di Decadi e le Raccomandazioni formulate. Si citano il Patto sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, sociali e culturali approvati nel 1966 ed entrati in vigore solo nel 1976, dopo il deposito del numero minimo di ratifiche richiesto.
Questi Patti, a differenza della Dichiarazione Universale, hanno un carattere vincolante per gli Stati firmatari che soppesano con cautela la loro adesione.
Altrettanto importante, seppure in un’altra ottica, è la creazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Si tratta di uno strumento volto soprattutto a tutelare quanto posto in essere dalla Convenzione Europea dei Diritti umani e che non gode di strumenti vincolanti per rilevare l’esecuzione delle sue sentenze. È comunque che gli Stati, riconosciuti colpevoli di violazione, eseguono i disposti di tali sentenze poiché, nel contesto internazionale, considerano politicamente non conveniente la loro mancata esecuzione.
È quanto mai difficile operare una valutazione di quale sia, oggi, lo stato di applicazione di questo articolo della Dichiarazione Universale.

 

Nella Costituzione Italiana

Recita l’art. 2 della Costituzione Italiana: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,…”.
Il riconoscimento e la garanzia dei diritti umani sanciti da questo articolo rappresentano il riferimento concreto dell’ordine sociale e internazionale richiamato dall’art. 28 della Dichiarazione Universale. Una particolare nota merita la scelta del termine riconosce.
In questo modo, e in questo specifico campo, la Repubblica si sottrae al suo ruolo tipico di creatore di diritto, per attribuire ai diritti umani un valore che può essere definito ipercostituzionale.
Pone così l’accento, sia sui diritti e sulla loro garanzia da parte del proprio ordinamento, che sulla preminenza del rispetto della persona umana nella società italiana e in quella internazionale.
Nel suo svolgersi, la Costituzione cita quali sono questi diritti inviolabili e li distingue in due categorie: quelli riconosciuti a tutti e quelli riconosciuti solo ai cittadini. Della prima categoria fanno parte il diritto a professare liberamente la propria fede (art. 19), il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21), ecc.
Per la seconda categoria, si possono citare il diritto al lavoro (art.4), il diritto ad associarsi liberamente (art. 18), ecc.
Inoltre la Repubblica, sempre per i suoi cittadini, si fa carico, con l’art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che di fatto impediscono il pieno esercizio di diritti e libertà.
Per finire, si può ricordare che all’art. 10, viene garantito l’asilo a coloro che nel proprio Paese non possono esercitare le libertà democratiche. Sono queste, senza dubbio un segno del valore imprescindibile attribuito ad ogni persona, perché abbia la possibilità di svilupparsi pienamente, così come, solo il pieno ed esclusivo riconoscimento dei suoi diritti e libertà le possono consentire.

lalegge

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IL DIRITTO AD ESERCITARE I PROPRI DOVERI

 

  1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
  2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento ed il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale di una società democratica.
  3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite.

 

Il riconoscimento dell’esistenza dei diritti per ogni individuo e dell’affermazione conseguente che non solo gli Stati, ma ogni persona in quanto tale, deve ritenersi membro dell’ordinamento giuridico internazionale, ha permesso una nuova impostazione del diritto, delle modalità con cui si realizza e dei suoi organi promotori.
Ogni persona contrae il dovere di proporre istanze ed effettive forme di collaborazione per raggiungere nuove mete di convivenza umana giusta, pacifica e solidale. Solo così infatti si può consentire il riconoscimento della libertà e della dignità della persona, per la reale costruzione della comunità locale, nazionale ed internazionale.
Il primo comma stabilisce il rapporto di reciprocità tra la persona e la società di cui fa parte. Proprio perché non potrebbe vivere, né svilupparsi intellettualmente e affettivamente, al di fuori di un ambiente sociale, la persona ha dei doveri nei confronti della società di cui fa parte.
Il secondo e il terzo comma, pur garantendo il più ampio esercizio di doveri e libertà, stabiliscono dei veri e propri limiti positivi a tale esercizio; tali limitazioni tuttavia, non sono definite esplicitamente come si verifica in molte dichiarazioni, perché viene rimandata la loro concretizzazione alle leggi dei singoli Stati, dimostrando in esse una straordinaria fiducia.
I limiti positivi sono: il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri, la soddisfazione delle giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale e l’assenza di contrasto con i principi delle Nazioni Unite.
La fiducia verso gli Stati è alimentata dal fatto che sono i Parlamenti, ovvero gli organi rappresentativi del popolo e della sua volontà, a elaborare le leggi. Nella realtà però si è spesso verificato che proprio gli organi rappresentativi si siano dimostrati privi di quella necessaria indipendenza dai loro esecutivi che purtroppo, sono risultati in grado di influenzarli.

 

Nella Storia

Il dovere di partecipare alla vita del proprio gruppo sociale e della comunità più allargata, è stato sempre percepito in tutte le civiltà sin dal loro sorgere. Si è esplicitato sotto diverse forme, da quella della appartenenza per vincolo di sangue, a quella della fedeltà per patto o giuramento di alleanza. Infatti, una società in cui i cittadini pretendono solo il rispetto dei propri diritti senza pagare il prezzo dei propri doveri, sarebbe indubbiamente una società fallimentare.
Dall’antichità, il rapporto fra diritti e doveri subì nel tempo una evoluzione lenta, ma costante; solo con la nascita della polis greca il suddito divenne cittadino perché assunse un ruolo di partecipazione attiva simile a quanto avverrà nelle epoche successive.
Durante il medioevo e l’epoca dei principati, nei regni dominati dai re assoluti, gli uomini costretti a vivere del proprio lavoro, non vedevano garantiti i propri diritti mentre erano carichi di doveri verso l’autorità.
Solo in epoca moderna, il tema dei diritti-doveri diventò oggetto di una vera e propria rivoluzione per l’organizzazione delle società e degli Stati. La figura dell’individuo acquistò una sua universalità, non più intesa come appartenenza al cosmo, ma come prospettiva dell’esistenza e della conoscenza che portava dentro di sé. Maturò degli interessi per la dimensione pratica e ne approfondì gli aspetti etico-politici. Innanzitutto cambiò il concetto di libertà che venne inteso come il poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri.
In questo modo l’esercizio dei diritti naturali dell’uomo non aveva altri limiti che quelli che garantivano agli altri membri della società, di poter godere degli stessi diritti. Questi limiti potevano essere determinati solo dalla legge. L’individuo, come soggetto di diritti, si affermava fino a considerare la propria volontà come l’unica razionalità del potere costituente. Nasceva una consapevolezza dell’io, come progetto di autoaffermazione e come capacità di produrre la storia. L’individuo si differenziava dalla natura sottomessa a leggi meccanicistiche, per maturare in sé stesso un chiaro concetto di finalità.
Con le Rivoluzioni Americana e Francese dei se colo XVIII, si iniziò a rivendicare le libertà dei diritti con la consapevolezza dei corrispondenti doveri.
Da allora fino all’epoca contemporanea, assume particolare importanza l’ordinamento del vivere sociale: questo si trasforma da quadro normativo preesistente alla libertà individuale, nell’insieme di relazioni che si stabiliscono tra gli individui come il poter fare di diritto. Si tratta in quest’ultimo caso, di aprirsi all’altro, come un altro soggetto di diritto; di superare il conflitto per una riconciliazione nell’uguaglianza, riconosciuta e consentita.
La mediazione tra i due diritti diventa il fondamento del dovere come compresenza di più soggetti portatori di diritti.
Questa significatività del dovere acquista le dimensioni della responsabilità e della solidarietà verso l’altro.

 

Oggi

Nelle società in genere, non esistono forme di solidarietà naturale: “le loro ragioni vanno ricercate nell’ambito delle giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale di una società democratica”, come ribadisce l’articolo della Dichiarazione Universale. La persona ha il dovere di operare delle scelte.
La partecipazione diventa l’atto concreto per concorrere, con gli altri membri della comunità, a determinare le finalità principali della vita della collettività su un piano di effettiva uguaglianza.
È interessante rilevare come l’inserimento di questo articolo della Dichiarazione Universale è senza dubbio legato all’influenza che, nella sua stesura, ebbero i paesi dell’area socialista legati all’URSS.
La loro ideologia attenuò la matrice giusnaturalistica contenuta nei diritti umani secondo la quale, i diritti sono legati alla comprensione della essenzialità della natura umana come tale e pertanto considerata uguale ed universale per tutte le persone. Al contrario, il socialismo volle ribadire la storicità dello stesso diritto legato al fatto che l’individuo muta la consapevolezza della dignità della sua natura attraverso una comprensione più matura della storia in cui vive incarnato. Sottolineò anche come titolari dei diritti, i gruppi sociali quali luoghi di realizzazione della personalità singola.
Anche il concetto dei doveri dell’individuo nei confronti della realtà sociale in cui vive, insieme all’idea dei limiti di esercizio di tali diritti, è di matrice prettamente socialista.
In sostanza l’appartenenza al gruppo diviene una sorta di limite all’esercizio delle libertà.
Per capire cosa questo abbia significato concretamente, si può fare riferimento alla Costituzione sovietica del 1977 la quale all’art. 39 afferma che: “… l’esercizio dei diritti e delle libertà da parte dei cittadini non deve recare danno agli interessi della società e dello Stato e ai diritti degli altri cittadini”; e all’art. 50 “… in conformità con gli interessi del popolo e ai fini del rafforzamento e dello sviluppo dell’ordinamento socialista si garantiscono ai cittadini dell’URSS le libertà …”. I diritti civili e politici del singolo sono così subordinati agli interessi economici e sociali della collettività anche se non potranno essere utilizzati per giustificare una restrizione delle libertà se non determinata da un reale bisogno di una loro più efficace tutela.
Le democrazie occidentali contemporanee invece, rispondono ad una concezione aristocratica dello Stato borghese; credendo che lo Stato sia un’autorità morale capace di garantire la libertà e l’uguaglianza, si è involontariamente attribuita allo Stato la responsabilità che spetta alla persona. Si sono così delegati i compiti del soggetto allo Stato e in questo modo la società civile è venuta meno alla propria responsabilità. È urgente porvi rimedio.

 

Nella Costituzione Italiana

L’esercizio dei doveri verso la Comunità viene espresso dall’art. 2 della Costituzione Italiana quando afferma: “la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Per essa, la solidarietà rappresenta il contenuto dei doveri, anche se non fa menzione esplicita di un diritto alla solidarietà o di un impegno della Repubblica per rendere effettive le condizioni che ne garantiscano l’attuarsi a tutti i livelli.
Va osservato che, secondo il costituente, tre sono le forme di solidarietà giuridicamente rilevanti: politica, economica e sociale. Ad ognuna di esse si possono riferire alcuni articoli che ne rappresentano l’esplicazione. Relativamente alla solidarietà politica, vanno citati: l’art. 48, “l’esercizio del voto è un dovere civico” l’art. 54“tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi”. Il dovere di solidarietà economica si esprime negli articoli: art. 4, sul “dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”; art. 53, sul dovere di concorrere alle spese pubbliche in misura proporzionale al reddito: il sistema fiscale rappresenta l’attuazione di un dovere di solidarietà economica; art. 42, sulla possibilità di espropriare la proprietà privata per motivi di interesse generale (salvo indennizzo): l’espropriazione di un terreno per costruire un’opera di pubblica utilità, rappresenta l’attuazione di un dovere di solidarietà.
La solidarietà sociale si esplica negli articoli: art. 30, sul dovere di mantenere, istruire ed educare i figli; art. 38 è fondamentale perché teorizza lo Stato sociale cioè uno Stato che abbia come primo obiettivo quello di garantire a tutti un certo numero di servizi essenziali ed un certo benessere attraverso la pensione minima indipendente dai contributi e attraverso le prestazioni mediche e sanitarie gratuite. Il costo dell’operazione viene ripartito, in misura proporzionale al reddito, tra i cittadini che superano la soglia della povertà; art. 42 tratta della funzione sociale della proprietà; art. 44 sui limiti e vincoli alla proprietà terriera privata in funzione sociale.
I doveri diventano così, per i costituzionalisti, inderogabili, vale a dire da rispettare assolutamente, intrinseci cioè legati all’appartenenza al gruppo sociale e concreti nella solidarietà a tutto campo.
Il proposito della Costituzione va al di là di norme generiche che permettano la semplice convivenza tra più individui, per creare una vera e propria comunità umana unitariamente intesa.
La solidarietà, infatti, diviene operante principalmente in gruppi di individui che antepongono consapevolmente i valori, le norme, i costumi, gli interessi della collettività considerata come un tutto, a quelli personali o del proprio gruppo.
Tutto ciò non esclude il perseguimento di finalità e di interessi singoli. Basta pensare che l’interesse non può essere considerato solo come profitto e utile, quanto piuttosto come significatività. Per la persona può essere significativo associarsi e condividere una solidarietà che non sia solo la nuda giustizia, che può preservare, sì, la società, ma che non riesce a costruire nell’unità e nella convivenza democratica.

lalegge

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IL DIRITTO AL RISPETTO DEI DIRITTI

 

Nulla nella presente Dichiarazione Universale dei Diritti Umani può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

 

Questo articolo viene stilato a garanzia di una interpretazione corretta di tutti gli articoli.
Esso, infatti, vuole impedire che uno Stato, un gruppo o persino un singolo individuo, eserciti attività o compia atti isolati che violino i più elementari diritti e le libertà fondamentali.
Gli autori della Dichiarazione Universale, – R. Cassin, C. Malik, E. Roosvelt – hanno inteso evitare il rischio di ogni interpretazione contrastante con le finalità ultime di questa pietra miliare nella storia dei diritti umani.
Tale rischio è stato eliminato in maniera definitiva con una formulazione che interviene a tutti i livelli:

  1. su un piano che si può definire, orizzontale: nulla” – dice l’articolo, – “può essere interpretato nel senso di…“: qualsiasi comma, ogni articolo è protetto di fronte a qualsiasi errata interpretazione;
  2. su un piano – per così dire – verticale “… di qualsiasi Stato, gruppo o persona…” la protezione si estende nei confronti di chiunque, sia esso organismo statale o singolo individuo;
  3. su un piano – trasversale: perché si tratta di “esercitare attività o di compiere un atto” singolo, tutelato dai diritti e dalle libertà, enunciati nella Dichiarazione.

L’articolo può dunque essere definito come una clausola di salvaguardia per tutti i 29 articoli precedenti. Sarebbe però riduttivo volerlo incasellare in una sterile e semplicistica definizione di “argine” o di “ultima barriera” contro le sempre nuove e sempre rinnovate violazioni dei diritti umani.
Sarebbe ugualmente eccessivo, e probabilmente anche retorico, presentarlo come l’insostituibile chiave di volta di tutta l’architettura della Dichiarazione, ma non si può negare che l’articolo 30, così posto in coda, sembra quasi esserne il necessario coronamento ed il degno sigillo.

 

Nella Storia

La Dichiarazione Universale ha per sua natura, un valore più onorale che di vincolo giuridico. Infatti, non essendo un accordo tra le parti contraenti, non può imporre alcun tipo di obbligo Nonostante ciò, la Dichiarazione ha rappresentato un modello per successive convenzioni sia internazionali che regionali come la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, la Convenzione Americana dei Diritti Umani, il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, il Patto delle Nazioni Uniti sui diritti economici, sociali e culturali e, certo non ultima per ordine di importanza, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Una norma abbastanza simile all’articolo 30 della Dichiarazione si ritrova proprio nella Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, entrata poi in vigore il 3 settembre 1953, data in cui furono raggiunti i dieci strumenti di ratifica necessari.
Si tratta dell’art. 60 che recita testualmente “Nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata come recante pregiudizio o limitazione ai Diritti dell’Uomo ed alle Libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base a leggi di qualunque Stato contraente o ad altri accordi internazionali di cui lo Stato faccia parte.
Poiché la Convenzione non costituisce che un accordo fissante dei limiti minimi, si può quasi definire un minimo comun denominatore in materia di diritti umani in Europa, e lascia il posto ad accordi di maggior estensione che eventualmente gli Stati possono sottoscrivere. Questo non significa che la Convenzione sia priva di effetto sul piano giuridico interno: nei Paesi firmatari: la si riconosce come parte del diritto internazionale cui le parti contraenti devono uniformarsi, conformando ad essa le legislazioni nazionali.

 

Oggi

La disposizione dell’articolo 30 ha lo scopo di prevenire un qualsiasi eventuale – e pericoloso – interstizio che permetta una rottura dall’interno dell’edificio che si è inteso costruire.
Secondo quanto afferma Jacques Maritain “una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo non sarà mai esauriente e definitiva, sarà sempre in funzione dello stato della coscienza morale e della civiltà in una data epoca della storia.
L’articolo e la sua funzione di garanzia assumono, quindi, un nuovo ruolo; soprattutto ora, in un momento in cui, con la fine del bipolarismo, le situazioni che stanno determinando un cambiamento di rotta nell’organizzazione del sistema internazionale, reclamano essere affrontate con un nuovo approccio di lettura politica.
Vanno colte le dinamiche che si snodano tra le affermazioni di localismo e le esigenze di globalismo insieme a quelle per esempio, dell’attuazione di un sistema globale di sicurezza internazionale in base al diritto della libertà di scelta della persona e dell’autodeterminazione dei popoli.
Rimane il problema di capire come si possa arrivare ad una autorità sovranazionale capace di emettere regole e di formare istituzioni alle quali poi si conformino i governi.
Teoricamente tutti i soggetti del sistema internazionale sono ugualmente sovrani; ma praticamente questo è possibile solo per quegli Stati che hanno maggiori risorse per far rispettare le regole e le istituzioni organizzative del sistema. Questo genera di fatto, la causa reale della disuguaglianza degli Stati che determina poi la disuguaglianza del sistema internazionale.
Solo un mutamento della distribuzione del potere attuale può favorire un mutamento nei ruoli direttivi dei sistema.
La sua evoluzione dovrebbe superare le competizioni politiche esistenti basate su sistemi di forza economico-giuridica ancora rilevanti.
Se è venuta meno la classica competizione Est-Ovest, oggi si sta aggravando la competizione Nord-Sud che viene comunemente riferita ai problemi del mercato internazionale e agli aspetti dello sviluppo. Sta irrompendo con forza anche la competizione Centro-Periferia dopo la risoluzione dei legami coloniali del passato, dei flussi migratori e delle nuove forme di marginalità sociale.
Queste forme di competizione si intrecciano a nuovi delicatissimi rapporti di equilibrio politico determinati dal processo di espansione di alcune potenze egemoniche e dai processi di affermazione di nuovi Stati emergenti, quali i Paesi Arabi o la Cina.
Il sistema internazionale si sta evolvendo decisamente verso un ordine multipolare con il conseguente fenomeno del regionalismo.
Questo ha iniziato il suo corso quando le due superpotenze USA – URSS, anche se solo teoricamente, avrebbero potuto scontrarsi nei così detti Paesi del Terzo Mondo. In quel momento storico, si recupera il valore del fattore geografico che ha dato impulso al regionalismo.
È sempre più necessario che ci siano spazi di maturazione di principi sociali e norme giuridiche paritarie per i cambiamenti prodottisi nel sistema internazionale a favore di una interdipendenza effettiva.
Da una attenta analisi, la globalizzazione dei problemi, sta evidenziando in realtà una gerarchizzazione delle aree geografiche e processi di alterazione dello stesso sistema.
Se questa non è una meta raggiungibile da ogni persona così come dagli Stati, si ricade nei presupposti ideologici che mantengono in piedi una logica di potere e di egemonia.
Si propone, al contrario, di cercare le condizioni adeguate che favoriscano le regole autentiche di un metodo democratico che stabilisca, non solo la logica ma la realtà della liberazione e dell’emancipazione per tutti.

 

Nella Costituzione Italiana

Il senso partecipativo, responsabile e democratico di un sistema per la difesa dei diritti umani indicato dall’articolo 30 della Dichiarazione Universale, si può riscontrare nei principi ispiratori della Costituzione Italiana.
Secondo Mortati, uno dei padri della stessa Costituzione, i principi che la ispirano sono quello pluralista, il principio lavorista e il principio personalista.
Il principio pluralista si estrinseca in diversi articoli: l’art. 50, sul decentramento delle funzioni attraverso il riconoscimento delle autonomie locali; l’art.6 sulle minoranze linguistiche; l’art. 18, sul diritto alla libera associazione e in tutto il Titolo V dedicato alle Regioni, Province e Comuni.
Il principio lavorista si manifesta fin dall’art. 1, quando si afferma che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, riappare nell’art. 4 quando si parla del diritto-dovere costituito dal lavoro e negli artt. 35, 36 e 37 sulla tutela del rapporto di lavoro, sulla retribuzione e sul lavoro della donna e dei minori.
Il principio personalista pone la persona umana e la sua dignità al vertice della scala dei valori costituzionalmente tutelati. Da ciò deriva il dovere di ognuno di contribuire in prima persona al benessere degli altri e l’obbligo negativo di astenersi dal ledere gli interessi altrui. La tutela del singolo, della sua personalità e dei suoi diritti inviolabili sono tutti aspetti coessenziali alla problematica del rispetto della dignità umana.
La menzione della singolarità dell’individuo, della sua personalità, dell’inviolabilità dei suoi diritti, è il risultato più alto dell’ispirazione cristiana della Costituzione Italiana.
Accanto ad essa si ritrovano anche principi del socialismo agli artt. 1, 4, 35, 36, 37, 40, 42, 43, e 46; del liberalesimo negli artt. 41, 42, 44, e 47